lunedì 14 settembre 2015

TRUE STORY

a Paola



«Pensa che io grido aiuto quasi tutte le notti.»

Me la dice così. Io nemmeno le avevo chiesto niente, poi non è che ci fosse tutta questa confidenza tra di noi. Ho sempre fatto finta di niente. Per discrezione, per pudore, un po’ anche per paura.
Ci siamo incontrati per caso al bar sotto casa: un bar molto brutto, anonimo come altri mille in questa città, che sembrano fatti tutti uguali e un po’ finti.
“Eh…va beh, a una che ti dice così cosa le rispondi?”, penso.
Che è bella mica glielo posso dire subito.
Una che grida “aiuto” tutte le notti, dentro c’avrà qualche cosa di ammucchiato e pressato ben in fondo, che per non scoppiare, ogni ventiquattro ore si apre una valvola e gridi.
Cominciamo a bere i caffè che ci hanno portato, che con il caffè, un po’ il tempo lo freghi, ti prendi una pausa che quello, il tempo, mica può farci nulla. Quanto gli starà antipatico il caffè al tempo? Forse è per questo che la gente si è fissata che se bevi il caffè prima di andare a letto non dormi. L’ha messa in giro il tempo sta voce, mica è vera.
Ed eccoci qui: io e la mia vicina che mi fa prendere uno spavento quasi tutte le notti con un solo e unico grido: AIUTO!
Non le dico che la prima volta che l’ho sentita urlare mi sono svegliato come se qualcuno mi avesse preso per i capelli e trascinato giù dal letto.
Non le dico nemmeno che la seconda volta che l’ho sentita urlare mi sono alzato e sono andato a controllare che la porta fosse chiusa bene.
Non l’ha detto per chiedermi: “Scusa se ogni tanto ti faccio quasi venire un infarto”.
È stato un piccolo grido di aiuto, stavolta dentro al bar: “Pensa che io grido aiuto quasi tutte le notti”.
Il caffè l’ho finito, mi rigiro la tazzina tra le mani e mi sembra brutto non rivelarle qualcosa di intimo anche da parte mia.
Lo dico?
«Beh…uno dei miei sogni è rovistare dentro la spazzatura degli sconosciuti.»
«Scusa?»
Rimango impassibile, abbasso lo sguardo e lentamente allontano la tazzina vuota dal bordo del tavolo. Mi appoggio allo schienale e vado avanti.
«Sì, sogno di rubare i sacchetti di spazzatura che la gente ha appena buttato. Carta, plastica, misto. Tutto tranne l’umido. Quello mi fa schifo. Vorrei rovesciare tutto sul tappeto in salotto e curiosare. Che ne so… che marca di saponette usano? Comprano le mutande a pacchi da dieci al mercato oppure solo roba firmata? E le ricevute della carta di credito? E… gli scontrini, si gli scontrini mio Dio! Hai idea di quello che puoi scoprire andando a leggere gli scontrini degli altri?»
Mi guarda in silenzio. Se ne sta lì a guardarmi con le braccia incrociate e gli occhi fissi sui miei. Poi si sporge verso di me, lentamente, ma si avvicina talmente tanto che ormai è quasi sdraiata con la pancia sul tavolo. Ho il suo viso a tre centimetri dalla faccia.
“Come cazzo fa a non sbattere le palpebre?”, non faccio in tempo a finire questa inutile riflessione che comincia a parlare.
«Io, tutte le notti, sogno la faccia di un uomo di mezza età che mi fissa a tre centimetri dal viso. Proprio come sto facendo adesso con te. Mi fissa. Non dice niente e non fa niente. Sta lì e mi fissa. Tutte le notti.»
E si risiede normalmente.
“Ti prego torna qui.”
Ma mica posso mollare adesso.
«Io una volta ho avuto una crisi di panico. Di notte. Non respiravo più, piangevo e non respiravo, non respiravo e piangevo. Ho dovuto stare abbracciato al mio amico per quarantatré minuti, abbracciati a cucchiaio fino a quando non mi è passata. Con lui che mi massaggiava lo sterno che pensavo esplodesse a un certo punto.»
“Ah! Ti ho visto. Ho visto che ti è passato un secondo di dolcezza sul viso.”
Adesso mi prende una mano, mi stringe la mano destra con la sua sinistra. Non è una stretta maliziosa, è un contatto puro e semplice, come ogni tanto ho visto fare da chi dice di essere sensitivo o cose del genere.
E siamo così: con gli avambracci che attraversano il tavolino e le nostre mani intrecciate.
«Io, una volta. Si perché sono anche sonnambula. Comunque, una volta mi sono svegliata in cucina con un coltello in mano.»
Fa per lasciarmi la mano, io la trattengo e ci metto anche l’altra mia mano sopra la sua.
“Sei nelle mie mani…”.
«Io, che ti sento gridare aiuto, che sto qui seduto a sentirti raccontare di quanto dev’essere faticoso attraversare le notti per te. Io, che una volta che ti ho sentito urlare sono uscito di casa e ho appoggiato l’orecchio alla tua porta, sono rimasto così per dieci minuti, abbracciato alla tua porta. Io non ho paura di sapere che tutte le notti dentro di te si spegne la luce, non ho paura di coltelli e men che meno di uomini di mezza età. Io ho paura che adesso ti alzerai da quella sedia e non mi avrai nemmeno detto il tuo nome. Ho paura che per quanto possa cercare di capirti, non potrò mai fare un granché per aiutarti.»
Adesso le mani intrecciate sono quattro.
«Mi chiamo Alyssa. È scritto anche sulla casella della posta. Io non ho paura quando urlo, o quando sogno, o quando divento sonnambula. Le uniche volte che ho paura sono quando mi sveglio e mi ricordo cosa è successo. Non so nemmeno se abbia tutta questa voglia di sapere che tu mi capisca, però ho voglia di passare delle notti normali con qualcuno accanto, magari non tutte le notti, qualcuna.»
Buonanotte.


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