martedì 4 giugno 2019

Milan


Il primo ricordo che ho di un giocatore del Milan è quello di Maldera, non chiedetemi perché, mi ricordo quei baffi sulla fascia.
Stiamo parlando dei primi anni ’80, con Radice in panchina e con qualche nome in rosa che diventerà negli anni successivi parte di quell’aratro che traccerà uno dei solchi calcistici più longevi e spettacolari della storia.
Si andava allo stadio con il cuscinetto sotto il braccio, San Siro era senza terzo anello e le uniche poltroncine erano rosse.
L’atmosfera era quella di una nobile decadenza, travolta da scandali e retrocessioni; un vecchio salone con parecchia polvere e una stella sul caminetto: quella dello scudetto del ’79. Il resto del palazzo era deserto, con teli bianchi a coprire i mobili e qualche pezzo di argenteria.
Ci si diceva di essere una grande squadra, più per farsi coraggio tra tifosi che per oggettivi traguardi sportivi. Io ascoltavo i ricordi di mio padre e dei suoi amici, ma la realtà era fatta da sbeffeggi quotidiani a scuola e in campo, nemmeno il mercanteggiare delle figurine dava soddisfazione; quelli forti, quelli bravi, quelli che vincevano avevano sempre altri colori sulle maglie.
Il senso di appartenenza era comunque più duro di qualsiasi sirena che cantava fuori dalle mura, si sperava che ogni anno fosse quello buono, quello del ritorno a vincere lo scudetto. La visione era limitata al titolo nazionale, per un bambino la Coppa Campioni in quegli anni e con quella squadra era assolutamente esclusa dalla lista dei desideri, anzi, non era nemmeno contemplata, era altro: una chimera, un altro paese dal nome esotico e lontanissimo.

Nella Milano da bere degli anni ’80 pareva che l’unica cosa fuori sincrono, all’interno di una città che galoppava verso un frenetico benessere sociale, fosse la squadra del Milan.
Nulla di quello che sentivo dire sul grande Milan si mostrava ai miei occhi, si galleggiava in campionati mediocri (per noi), ci si rassegnava a guardare vincere gli altri.
Il rito della domenica alle 15.00 però non veniva mai tradito, con amore (cos’altro?) si andava a sedersi al proprio posto, credendo che giovani Incocciati potessero innescare quel salto di qualità che animava le nostre speranze.

Non accadde, tutto precipitò. Se prima eravamo una squadra dal passato glorioso, seppur popolare e macchiata da due retrocessioni, come puntualmente ci veniva rinfacciato dalla parte borghese e cittadina di nerazzurra provenienza, adesso eravamo una società senza futuro sul baratro del fallimento.
Il “destino” aveva disteso il cupo velo sull’unica squadra italiana a vantare due Coppe dei Campioni.
Stavamo per diventare una squadra museo, cosa più tragica saremmo diventati la “ex squadra di Milano”.
Si stava per verificare quello che nell’immaginario collettivo non era mai stato, nemmeno lontanamente, concepito: il Milan non sarebbe più esistito.
Accadde tutto molto in fretta, quando si hanno undici anni non ci si interessa molto di bilanci, trame finanziarie e sequestri giudiziari. Mi dissero che il Milan era di Berlusconi. Notizia che mi lasciò indifferente, avevo solo capito che era successo qualcosa di grave e di inatteso al tempo stesso.
Nessuno mi disse che da quel giorno del 1986 la mia vita di tifoso rossonero sarebbe cambiata per sempre, e insieme alla mia quella di una intera generazione.

Questo anziano signore (Berlusconi), all’epoca per me era un adulto e quindi per osmosi anagrafica un anziano, dicevo, questo signore disse in televisione, quindi, sempre per l’epoca, qualcosa di estremamente serio e ufficiale; che il Milan sarebbe dovuta diventare una squadra vincente in Italia e nel mondo, con l’aggravante non solo di vincere ma anche di giocare bene.
Le prese per il culo fioccarono, chi osava deragliare dai due paradigmi sacri del calcio italiano? Dove Trapattoni era L’Allenatore e Platini il Giocatore.
Come pensava di fare questo yuppie a concretizzare una tale superbia?
Parliamoci chiaro, nessuno gli avrebbe dato due lire, men che meno un ragazzino. Per me il massimo era stato raggiunto con Hateley che vola sopra il giuda Collovati e la mette nel derby, 2-1 Liedholm in panchina.  
Proprio dal mister comincia la terapia d’urto che tutto avrebbe sconvolto. Un signore della panchina come Liedholm viene esonerato prima della fine del campionato.

Ma riavvolgendo il nastro dei ricordi, prima ancora dell’esonero, il segnale che comunque qualcosa stava accadendo e non sarebbe stato banale ci fu.
Nell’estate del 1986 la nuova proprietà organizzò “la presentazione della squadra all’Arena di Milano”, non lo capimmo subito, ma stavamo per compiere un salto nell’iperspazio per il calcio italiano dell’epoca. Elicotteri sulle note della “Cavalcata delle Valchirie” di Wagner atterrarono al centro dell’Arena e scaricarono i giocatori in rigorose giacche blu con stemma del Milan dorato sul taschino. Oggi ho riguardato quelle immagini e posso capire le espressioni dei giocatori, erano le stesse che avevamo noi; ma che sta succedendo? non sarà troppo?  L’unico in quelle immagini che è chiaramente dove vuole essere è Silvio Berlusconi, sorride sicuro e si guarda attorno con grande soddisfazione, come se fosse l’unico a vedere una rotta ben tracciata. Il saggio Liedholm invece sembra un turista che ha sbagliato albergo e si rende conto di non potersi permettere nemmeno una notte nel posto in cui è capitato, in fondo non gli piace nemmeno tutto quel lusso.

L’estate del 1987 segna un altro colpo di scena, si legge un nome sui giornali sportivi: Arrigo Sacchi.
Arrigo chi? Si sarebbe ironizzato oggi. Nello stupore e nello sconforto apprendiamo che un ometto basso e calvo è il nuovo allenatore del Milan. Non ricordo grida di giubilo e tappi di champagne saltare, i più informati sapevano che era l’ex allenatore del Parma, agli altri sembrava un ragioniere di provincia.
Inizia a girare la leggenda che Berlusconi l’abbia ingaggiato perché il Parma ci aveva battuto in un turno di Coppa Italia, la leggenda si sarebbe poi rivelata fondata.

Se gli altri, dopo la presentazione con gli elicotteri ci guardavano strano, adesso con uno sconosciuto come allenatore ci guardavano e dandosi di gomito ridevano.
Immagino che il primo allenamento di Sacchi a Milanello, quando la squadra è schierata a centrocampo in circolo e il mister comincia a spiegare la sua filosofia di gioco, sia stata simile a quando Galileo sostenne la teoria copernicana davanti alla Santa Inquisizione.
Pur infarinati superficialmente dalla “zona” di Liedholm, non eravamo (e non erano) pronti a una vera e propria rivoluzione.
Perdemmo qualche partita, uscimmo dalla coppa Uefa, tutto questo bel gioco e Milan vincente non lo vedevamo, e poi si sa che a uno sconosciuto non è concesso credito. Ci domandavamo come fosse stato possibile affidare il Milan a questo esagitato che passava il tempo delle partite in piedi urlando e sbracciando come un vigile urbano. Il cervello andava fuori giri, i numeri sulle maglie da che mondo e mondo avevano sempre avuto un senso, perché ad un tratto era sparito il nostro libero? Come mai spesso un giocatore avversario si trovava da solo davanti al nostro portiere e la nostra difesa era a centrocampo?
Il terzino fa il terzino, deve difendere, non è un’ala. Sì, va bene, qualche volta può scendere e crossare ma mica sempre, che poi ti scopri. Timidamente dentro e fuori Milanello si alzavano brontolii e mugugni, allo stadio non c’era un bel clima; nel girone di andata eravamo già nella fase “non mangia il panettone”.
Incompreso e non amato, Sacchi sembrava destinato a diventare “l’errore di un presidente inesperto e arrogante”, per tutti era così, tranne per chi l’aveva scelto: Berlusconi.
La frase detta alla squadra: “lui rimane, voi non so” è scolpita nella pietra di Milanello.

Tutto era molto semplice, ci trovavamo davanti a un genio, e come disse Shopenhauer: “Il talento colpisce un bersaglio che nessun altro riesce a colpire, il genio colpisce un bersaglio che nessun altro riesce a vedere”.