Il
primo ricordo che ho di un giocatore del Milan è quello di Maldera, non
chiedetemi perché, mi ricordo quei baffi sulla fascia.
Stiamo
parlando dei primi anni ’80, con Radice in panchina e con qualche nome in rosa
che diventerà negli anni successivi parte di quell’aratro che traccerà uno dei
solchi calcistici più longevi e spettacolari della storia.
Si
andava allo stadio con il cuscinetto sotto il braccio, San Siro era senza terzo
anello e le uniche poltroncine erano rosse.
L’atmosfera
era quella di una nobile decadenza, travolta da scandali e retrocessioni; un
vecchio salone con parecchia polvere e una stella sul caminetto: quella dello
scudetto del ’79. Il resto del palazzo era deserto, con teli bianchi a coprire
i mobili e qualche pezzo di argenteria.
Ci
si diceva di essere una grande squadra, più per farsi coraggio tra tifosi che
per oggettivi traguardi sportivi. Io ascoltavo i ricordi di mio padre e dei
suoi amici, ma la realtà era fatta da sbeffeggi quotidiani a scuola e in campo,
nemmeno il mercanteggiare delle figurine dava soddisfazione; quelli forti,
quelli bravi, quelli che vincevano avevano sempre altri colori sulle maglie.
Il
senso di appartenenza era comunque più duro di qualsiasi sirena che cantava
fuori dalle mura, si sperava che ogni anno fosse quello buono, quello del
ritorno a vincere lo scudetto. La visione era limitata al titolo nazionale, per
un bambino la Coppa Campioni in quegli anni e con quella squadra era
assolutamente esclusa dalla lista dei desideri, anzi, non era nemmeno contemplata,
era altro: una chimera, un altro paese dal nome esotico e lontanissimo.
Nella
Milano da bere degli anni ’80 pareva che l’unica cosa fuori sincrono,
all’interno di una città che galoppava verso un frenetico benessere sociale,
fosse la squadra del Milan.
Nulla
di quello che sentivo dire sul grande Milan si mostrava ai miei occhi, si
galleggiava in campionati mediocri (per noi), ci si rassegnava a guardare vincere
gli altri.
Il
rito della domenica alle 15.00 però non veniva mai tradito, con amore
(cos’altro?) si andava a sedersi al proprio posto, credendo che giovani
Incocciati potessero innescare quel salto di qualità che animava le nostre
speranze.
Non
accadde, tutto precipitò. Se prima eravamo una squadra dal passato glorioso,
seppur popolare e macchiata da due retrocessioni, come puntualmente ci veniva
rinfacciato dalla parte borghese e cittadina di nerazzurra provenienza, adesso
eravamo una società senza futuro sul baratro del fallimento.
Il
“destino” aveva disteso il cupo velo sull’unica squadra italiana a vantare due
Coppe dei Campioni.
Stavamo
per diventare una squadra museo, cosa più tragica saremmo diventati la “ex
squadra di Milano”.
Si
stava per verificare quello che nell’immaginario collettivo non era mai stato,
nemmeno lontanamente, concepito: il Milan non sarebbe più esistito.
Accadde
tutto molto in fretta, quando si hanno undici anni non ci si interessa molto di
bilanci, trame finanziarie e sequestri giudiziari. Mi dissero che il Milan era
di Berlusconi. Notizia che mi lasciò indifferente, avevo solo capito che era
successo qualcosa di grave e di inatteso al tempo stesso.
Nessuno
mi disse che da quel giorno del 1986 la mia vita di tifoso rossonero sarebbe
cambiata per sempre, e insieme alla mia quella di una intera generazione.
Questo
anziano signore (Berlusconi), all’epoca per me era un adulto e quindi per
osmosi anagrafica un anziano, dicevo, questo signore disse in televisione,
quindi, sempre per l’epoca, qualcosa di estremamente serio e ufficiale; che il
Milan sarebbe dovuta diventare una squadra vincente in Italia e nel mondo, con
l’aggravante non solo di vincere ma anche di giocare bene.
Le
prese per il culo fioccarono, chi osava deragliare dai due paradigmi sacri del
calcio italiano? Dove Trapattoni era L’Allenatore e Platini il Giocatore.
Come
pensava di fare questo yuppie a concretizzare una tale superbia?
Parliamoci
chiaro, nessuno gli avrebbe dato due lire, men che meno un ragazzino. Per me il
massimo era stato raggiunto con Hateley che vola sopra il giuda Collovati e la
mette nel derby, 2-1 Liedholm in panchina.
Proprio
dal mister comincia la terapia d’urto che tutto avrebbe sconvolto. Un signore
della panchina come Liedholm viene esonerato prima della fine del campionato.
Ma
riavvolgendo il nastro dei ricordi, prima ancora dell’esonero, il segnale che
comunque qualcosa stava accadendo e non sarebbe stato banale ci fu.
Nell’estate
del 1986 la nuova proprietà organizzò “la presentazione della squadra all’Arena
di Milano”, non lo capimmo subito, ma stavamo per compiere un salto
nell’iperspazio per il calcio italiano dell’epoca. Elicotteri sulle note della “Cavalcata
delle Valchirie” di Wagner atterrarono al centro dell’Arena e scaricarono i
giocatori in rigorose giacche blu con stemma del Milan dorato sul taschino.
Oggi ho riguardato quelle immagini e posso capire le espressioni dei giocatori,
erano le stesse che avevamo noi; ma che sta succedendo? non sarà troppo? L’unico in quelle immagini che è chiaramente
dove vuole essere è Silvio Berlusconi, sorride sicuro e si guarda attorno con
grande soddisfazione, come se fosse l’unico a vedere una rotta ben tracciata.
Il saggio Liedholm invece sembra un turista che ha sbagliato albergo e si rende
conto di non potersi permettere nemmeno una notte nel posto in cui è capitato,
in fondo non gli piace nemmeno tutto quel lusso.
L’estate
del 1987 segna un altro colpo di scena, si legge un nome sui giornali sportivi:
Arrigo Sacchi.
Arrigo
chi? Si sarebbe ironizzato oggi. Nello stupore e nello sconforto apprendiamo
che un ometto basso e calvo è il nuovo allenatore del Milan. Non ricordo grida
di giubilo e tappi di champagne saltare, i più informati sapevano che era l’ex
allenatore del Parma, agli altri sembrava un ragioniere di provincia.
Inizia
a girare la leggenda che Berlusconi l’abbia ingaggiato perché il Parma ci aveva
battuto in un turno di Coppa Italia, la leggenda si sarebbe poi rivelata
fondata.
Se
gli altri, dopo la presentazione con gli elicotteri ci guardavano strano,
adesso con uno sconosciuto come allenatore ci guardavano e dandosi di gomito
ridevano.
Immagino
che il primo allenamento di Sacchi a Milanello, quando la squadra è schierata a
centrocampo in circolo e il mister comincia a spiegare la sua filosofia di
gioco, sia stata simile a quando Galileo sostenne la teoria copernicana davanti
alla Santa Inquisizione.
Pur
infarinati superficialmente dalla “zona” di Liedholm, non eravamo (e non erano)
pronti a una vera e propria rivoluzione.
Perdemmo
qualche partita, uscimmo dalla coppa Uefa, tutto questo bel gioco e Milan
vincente non lo vedevamo, e poi si sa che a uno sconosciuto non è concesso
credito. Ci domandavamo come fosse stato possibile affidare il Milan a questo
esagitato che passava il tempo delle partite in piedi urlando e sbracciando
come un vigile urbano. Il cervello andava fuori giri, i numeri sulle maglie da
che mondo e mondo avevano sempre avuto un senso, perché ad un tratto era
sparito il nostro libero? Come mai spesso un giocatore avversario si trovava da
solo davanti al nostro portiere e la nostra difesa era a centrocampo?
Il
terzino fa il terzino, deve difendere, non è un’ala. Sì, va bene, qualche volta
può scendere e crossare ma mica sempre, che poi ti scopri. Timidamente dentro e
fuori Milanello si alzavano brontolii e mugugni, allo stadio non c’era un bel
clima; nel girone di andata eravamo già nella fase “non mangia il panettone”.
Incompreso
e non amato, Sacchi sembrava destinato a diventare “l’errore di un presidente
inesperto e arrogante”, per tutti era così, tranne per chi l’aveva scelto:
Berlusconi.
La
frase detta alla squadra: “lui rimane, voi non so” è scolpita nella pietra di
Milanello.
Tutto
era molto semplice, ci trovavamo davanti a un genio, e come disse Shopenhauer: “Il
talento colpisce un bersaglio che nessun altro riesce a colpire, il genio
colpisce un bersaglio che nessun altro riesce a vedere”.