venerdì 29 aprile 2016

UNO

Ricordo il tuo collo, rivedo il suo colore pallido ed elegante, etereo e delicato a pochi centimetri dal mio viso, davanti alle mie labbra, il fianco del tuo collo esposto e vulnerabile. Nel momento in cui sali sopra di me puntando i piedi accanto alle mie cosce il tuo collo mi viene in faccia, tu ti lasci scendere sul mio cazzo, è lì che vorrei stare sempre, così.
La sottile linea del tuo fisico, quell’essere così magra e piena di nervi, quella imprevedibile sensazione di fragilità che non accade mai del tutto sei tu.
Ti ricordi?
Mi ero ripromesso, a me stesso, e solo.
Mi ero imposto di abbandonare il vizio di ricordare il corpo, il colore, quell’odore che passa. Poi perché resistere? Quale salvezza dello spirito rincorro in questi inutili fioretti laici?
Nessuna.
Non m’interessa una salvezza di logica, la vorrei, ma non m’interessa. Mi frega solo di ritornare sotto di te.


lunedì 25 aprile 2016

Salite e discese

a R.

Quando da bambini ci si arrampica sugli alberi non si pensa a chissà come sarà cadere… si sale  e basta.
Noi usavamo dei lunghi cavi di gomma, erano cavi elettrici, metri e metri di cavi elettrici neri e spessi come liquirizie giganti che io rubavo dal magazzino di mio padre.
Io e Robi ci passavamo i pomeriggi sotto e sopra il grande Tiglio che cresceva proprio al centro del giardino, il tronco era nero e sporcava le braccia se cercavi di abbracciarlo, dritto per cinque o sei metri non aveva rami o appigli per attaccare la salita a mani nude.
Lanciavamo il cavo a cavallo del ramo più basso e solido a portata di lancio da ragazzini e poi ci legavamo in una imbragatura sbilenca e insicura attorno ai fianchi e sotto le cosce, cercando di non schiacciarci le palle.
Forza di braccia e spinta di gambe sul tronco, si saliva così fino ai rami appiccicosi, e poi basta, si scendeva. Il divertimento stava tutto nel salire e scendere.
Adesso non passo sotto il tiglio da anni, non faccio mai il giro della casa quando torno. Non sto più sotto a cercare di capire quale ramo è il più adatto e quale invece ci sbatterebbe con il culo per terra dopo un paio di metri di salita.
Abbiamo preso tante culate durante l’estate roba da spaccarsi l’osso sacro, ma per una legge non scritta pare che arrampicarsi sugli alberi porti una certa immunità fisica fino ai tredici anni, poi basta, poi se cadi ti fai male. 

giovedì 14 aprile 2016

Tempo orale

Non sopportando i giorni di pioggia restava chiuso in casa con le tapparelle abbassate e i tappi nelle orecchie per non sentire quell’inutile ticchettio.
Teneva un diario per i giorni di pioggia.
Il diario era diviso in sezioni: piove, piove forte, piove troppo.
Aveva scelto anche un titolo per il diario: Se piove sono giornate dispari. Il dispari era per lui sinonimo di stonature esistenziali, “stonature esistenziali” era un termine creato sempre da lui. Un piccolo inciso filosofico per etichettare con dovuta precisione il fastidio e la sensazione di claustrofobia dello spirito che anche poche gocce scatenavano in lui.
Cresceva al ritmo dell’acquazzone del momento la sua irritabilità, la quale si manifestava in comportamenti sempre volti alla mortificazione del proprio fisico. Piccole e prolungate torture inflitte con le unghie del pollice sulla pelle sottile del dito indice fino a sanguinamento. Grattare con forza il cuoio capelluto. Irritare la fronte con lo sfregamento ripetuto della punta di tutte le dita.
Sazio di questi esercizi, prendeva delle pause raccogliendosi in pensieri cupi. Immaginando la propria morte e la relativa scoperta del cadavere da parte di sconosciuti. 
Provava sempre sollievo nel constatare che sarebbe stato trovato morto stecchito con i tappi nelle orecchie, lo considerava un  vezzo eccentrico degno di nota. I tappi erano di gommapiuma gialla.
Non poca soddisfazione provava nel leggere a voce molto alta dei passi del diario, abbruttimenti sintattici di temporali passati.
Li declamava con slancio fisico, sempre tenendo il diario in una mano e coreografando lo spazio con l’altra.
Uno dei suoi temporali preferiti era una giornata dispari del Settembre 2013 – piove troppo.
Punta di martello addentro nelle mie carni molli e pensierose, di molteplici anni accorgo lo stordimento.
Ratto bianco che fugge tra le mie gambe, osservo, non trattengo.
Non oso parlare di quella parola, che cade senza che io mi volga.
Urla, urla, urla il soffio vorace e profetico del desiderio che sai, tu sai, il desiderio?
No.
Lievita e sprofonda dentro sempre dentro alle madri di spine, avvolte, spirate, piangenti, grottesche
come voci di cori.  
Sottovesti accorrono su pavimenti di lumache e di sete e di lingue pendule e incredule.
Giorni così dispari che spesso si dimenticava di scoprire se fuori il temporale fosse cessato.

Aspettava, tappato e solo, che qualcuno si ricordasse di lui. 

domenica 3 aprile 2016

INSONNIA

Non c’è nulla di interessante ad uscire per passeggiare nel cuore della notte, non si riesce a dormire, per questo si esce, per noia e disperazione.

Non dormire stanca, di una stanchezza che pesa tutta in testa.

Sono cazzate scritte da chi dorme dodici ore quelle che la notte è bella, e passeggiare da soli di notte è affascinante, e la città è più bella perché vuota e silenziosa, cazzate di stronzi dormienti.

Le strade sono vuote, più o meno… le merde di cane e i cestini che spurgano immondizia sono sempre lì, anzi sono lì più che mai; i rifiuti occupano i marciapiedi come zoccole in attesa che qualcuno se le carichi dentro scroti metallici che passano tra le sei e le otto a svuotare queste fighe inermi e verdi. Le porte sono chiuse, i citofoni sono illuminati per non sbagliare a suonare nel cuore della notte.

Dove si può entrare, basta spingere e scivolare velocemente: aprire, chiudere, scendere… ed è fatta, il desiderio insonne e più divertente non ha portineria.

Di notte la chiamano Andrea. Nome di fantasia, come il suo sesso.

Andrea occupa posti che aprono di notte e chiudono di giorno, posti che non esistono più. Non ci sono sulle cartine dei navigatori digitali, non li conoscono i froci della domenica che si parcheggiano con il cazzo in mano dentro la nostalgia degli anni Ottanta. Difficile trovare l’indirizzo di Andrea dentro siti d’incontri per coppie esteticamente depresse fasciate in calze dai colori scaduti.

Andrea si trucca pochissimo, non ha voglia di perdere tempo davanti allo specchio mentre qualcuno nelle altre stanze sta già annusando un paio di collant bagnati di piscio all’ombra di luci basse, frutto di lampadine avvitate in posti sbagliati. Tolti i quadri sconcio-retrò dalle pareti, le catene sono finite in un angolo, non le guarda più nessuno. Andrea è padrone, di casa, ha una sua sensibilità che non ammette intrusioni di pornografia leggera. Un po’ troia e un po’ nobildonna. Cortigiana e madama, ballerina e confessionale.

Non ha numero di telefono, ha una coda e due piedi stupendi, la coda le esce dal culo. Cammina a piedi nudi, e non parla. Tutti la guardano e la spiano stando accollati alle pareti, con le mani dietro la schiena, schiacciate dal muro e dal culo. Aspettano, i cazzi nei pantaloni… Anche le donne sono inibite da Andrea, la vogliono e la seguono; prende da bere dai bicchieri lasciati per terra, toglie i mozziconi galleggianti e con grazia si scola di tutto.

Poi sceglie.

Bacia in bocca e spinge i prescelti contro le altre persone, si trova in abbracci multipli di tre, quattro, sei, otto braccia. Si lascia andare di peso e precipita sul pavimento perché le piace vedere la cascata di pelle che la segue in fretta. Scalcia e tira schiaffi, si rialza e con i piedi preme i culi e li costringe a stare a terra, afferra chiome e le parrucche le rimangono in mano, i crani calvi li avvicina alle sue gambe aperte e li stringe per farsi leccare senza respiri. Vuole essere tirata per la coda, e quando sente il buco del culo cedere, scatta con il bacino e il poveretto si ritrova filamenti di plastica tra le mani e un dildo rosso come souvenir. Andrea lo guarda e se ne va… a scegliere ancora. Il sudore le copre la schiena e le cosce sono appiccicose di saliva e di figa, i cazzi sono fuori, stretti dalle cerniere e dagli elastici delle mutande che spingono sotto le palle. Li guarda e ammira la sua collezione di idioti dotati, accarezza i visi, bacia dolce come la nebbia le guance giovani di uomini e donne, si lascia toccare nella generosità della disperazione che genera solidarietà e non ammette distinzioni. Si masturba mentre timidi esplorano le sue cosce, annusa l’aria, l’odore si sente di più al buio. Le vengono addosso mentre lei continua la sua processione di piacere e debolezze. Liquidi e gocciolanti i perdenti si ritirano su sedie di plastica brutte e sintetiche come i cazzi di plastica e le palline cinesi. Andrea vuole scoparsi Andrea, se potesse. Si accovaccia sicura sulla cappella gonfia che la convince di più, lucida e scivolosa come porcellana, la sente entrare tra i suoi sipari, depilata allo sfinimento si guarda la figa che riceve un cazzo di vene e vuole godere, vuole le ginocchia sbucciate e i graffi sulla schiena, un dito nel culo e baci di lingue nella gola.

Fottimi, fottimi, scopami, scopami. Le parole rimangono dentro, soffocate dal cazzo che preme in una lotta di spinte e viscere. Ti prego vieni adesso, io ti prego. Vieni.

La notte non c’è nulla da vedere, Andrea non sarà menzionata nei giorni, non sarà riconosciuta, verrà abbandonata in una stanza. Per un attimo tutti saremo felici.

 

venerdì 1 aprile 2016

Costanza è un ossimoro

Mia nonna si chiamava Costanza, è morta il 25/08/2008.
Il giorno che è morta io ero in Grecia.
Strano… mi sono sempre trovato in Grecia quando è successo qualcosa d’importante nella mia vita, qualcosa che valesse la pena ricordare, nel bene e nel male.
Giuro. Deve esserci una specie di collegamento ancestrale tra me e la Grecia.
Vittorie e sconfitte, separazioni e unioni. Quando queste ondate emotive decidono di attraversare la mia vita, forse per gentilezza o per caso, fanno in modo che io mi trovi in qualche punto della Grecia: tra Atene e le isole tutte…
Non sono tornato per il funerale di mia nonna, tra traghetti e aerei sarei arrivato due giorni dopo la data utile. Ho pianto un po’ seduto sul letto guardando fuori dalla finestra e ho acceso una candela gialla e lunga e fine in una chiesetta di Mìlos, non tanto per una questione di credo ma perché mi piaceva la chiesetta.
Che se avessi fatto vedere una foto dell’isola a mia nonna mi avrebbe detto: oh che bel posto, come la Jacqueline Kennedy con Onassis. Sì, perché mia nonna soffriva di insonnia e per ingannare le notti lunghe e sole si faceva delle maratone di televisione e di giornali di gossip. Aveva sempre un rimando a qualche personalità famosa, però prediligeva quelle di un certo rango, non l’ho mai sentita nominare soubrette inconsistenti con lei si andava dalla famiglia Ranieri di Monaco in su.
Una donna sicuramente avanti, prima che arrivasse il referendum sul divorzio del ’74  lei aveva già fatto saltare il banco del suo matrimonio con un bel botto. Una naturale predisposizione per infilarsi in storie dall’esito più che incerto, talento per la menzogna e spirito anarchico, anche se lei rivendicava il suo essere socialista da sempre.

Ufficialmente faceva la sarta, alta moda, era molto brava e avrebbe avuto un futuro ma il carattere incostante le ha fatto bruciare molte conoscenze e logorare preziose collaborazioni. Avendo comunque talento si era creata un giro di clientela che voleva solo lei quando si trattava di abiti da sposa: disegno e abito, faceva tutto lei, dal taglio all’ultimo ricamo. In casa aveva un manichino, un metro di legno e diverse forbici di quelle da sartoria grosse con l’impugnatura ancora più grossa. La sua grande passione era il gioco d’azzardo, è lei che mi ha insegnato le giocate che si possono effettuare alla roulette. Che entrare al Casinò con tua nonna non è che capita tutti i giorni, peccato che poi dovevo trascinarla fuori per i capelli. Questa cosa del gioco d’azzardo gli era sfuggita un po’ di mano e anche di tasca che se capite cosa intendo dire… tanto che anche quando aveva smesso di guidare, ha guidato fino a quando ha potuto era assolutamente legata alla sua macchina perché questo la faceva sentire indipendente e soprattutto poteva farsi i cazzi suoi senza chiedere nulla a nessuno, dicevo che anche senza macchina fuggiva in piazza Castello per saltare sull’autostradale che l’avrebbe scaricata davanti al casinò di Campione. Ho sempre visto una esistenza avventurosa e bruciata in velocità in lei. Come quasi tutte le persone abituate a scegliere sull’onda dell’emozione è morta sola. Voleva stare sola, è voluta tornare a casa dall’ospedale ed rimasta sola con mia mamma in una stanza di casa dei miei per gli ultimi due giorni. Non mi ha mai detto un volta: ah se avessi fatto così, invece di cosà… mai, nemmeno una volta.