Il
tempo passa, il calcio resta.
Sarà
per questa banale considerazione che questo sport ha fatto e continua a fare la
felicità nostra e di generazioni future. Il calcio è semplice, spogliato di
tutto il superfluo, ovvero di quasi il novantanove per cento di quello che con
sempre più invadente insistenza gli è stato somministrato negli ultimi decenni,
il calcio resiste. Il semplice gioco del pallone, spendibile su qualsiasi
terreno, cortile, pianerottolo e cameretta, fino ad arrivare agli stadi, quelli
veri, è con noi da sempre. Il calcio siamo noi da piccoli, siamo noi da
ragazzi, siamo noi giocatori dilettanti o no, bravi o scarsissimi, forti di
testa o con un gran fiato. Siamo noi in due contro due, a cinque, a sette, in sei
con il portiere volante, a porticine, in spiaggia, nei piazzali deserti dentro
la notte, siamo giocatori anche quando non tocchiamo più un pallone da anni; il
calcio lo amiamo, amiamo questo sport così “alla portata” ma dannatamente
serio. Il tifo è una conseguenza, prima del tifo arriva l’amore per il calcio,
chi salta questo passaggio è orfano, solo con la sua ossessione, l’amore è
l’inizio di tutto. Riconoscere a livello conscio e inconscio una bella giocata
è la prova di questo amore, poi arriva il colore della maglia.
Questo
è successo ieri, si è visto l’amore per il calcio, per una domenica è tornato
prepotentemente il senso del gioco del pallone; la possibilità che un ragazzino
faccia tutta la trafila epica e fiabesca attraverso questo sport. Una sola
città, una sola maglia, una classe immensa. Tutto cade, tutto viene scoperto:
l’ossessione per la tattica, la cosmetica apparenza dietro tatuaggi, creste e
scarpette colorate su cui ogni settimana si appiccica il titolo di “campione” a
questo o a quello, in una folle corsa di marketing emotivo che evapora nel giro
di novanta minuti.
Parafrasando
una bellissima canzone di De Gregori: “…il campo non ha nascondigli, il campo
non passa la mano…”, rimane la consapevolezza di aver vissuto una storia sportiva
senza ombre, con alti e bassi, con tanto cuore e piedi che ha unito tutti
nell’omaggio sincero per il calciatore, per la bandiera e per il campione che
tutti abbiamo avuto. Totti è l’ultimo archetipo italiano di una generazione, è
per questo che la commozione è stata tanta, l’ultimo se ne va, lascia il campo.
Lascia il numero per eccellenza, il dieci.
Dieci,
la somma dei giocatori in campo (il portiere è un altro pianeta), “decem ex
machina” di una squadra.
L’ultimo
“ribelle” che ha scelto di dire no a tante grandi che pure gli avrebbero
permesso quasi sicuramente altri traguardi, ma non l’immortalità. Non l’essere
ricordato come rappresentativo di un’epoca, di un modo di pensare il gioco
ancora come gioco e non come professione privilegiata volta a capitalizzare.
Si
è dovuto aspettare la fine del cammino per capire questa scelta romantica,
spesso incompresa e a volte considerata di “ritirata”, di rimanere sempre lì, a
Roma.
Ora
è il giorno zero, ora il testimone è posato, non è stato passato perché ancora
non c’è qualcuno che può raccoglierlo. Ora deve nascere un altro giocatore, un
altro uomo di calcio. Arriverà.