venerdì 27 maggio 2016

Virginia



Virginia la conobbi sul finire di una serata, forse una serata con la pretesa di essere una festa da ricchi in una casa da ricchi, al momento non saprei dire. Un incrocio di sguardi di sbieco un po’ arrossati dal fumo e dall’alcool. Girovaghi con occhi sulle spalle dell’altro, a turno,  con il bicchiere mezzo pieno in mano, attraverso le porte di quel grande appartamento con i pavimenti di marmo vecchio e brutto.
Fu non casuale, il fatto che ci trovammo finalmente nella stessa stanza, appoggiati allo stesso muro. Non mi andava di dover cominciare a parlare, volevo stare un attimo fermo e guardarla, e basta. Poteva guardarmi anche lei, glielo avrei detto: puoi guardarmi. Non mi guardava, io sì. Non sapevo ancora si chiamasse Virginia, che se l’avessi saputo avrei subito fatto l’associazione con la Vergine, la santa, non il segno zodiacale. Virginale, pelle chiara, occhi scuri, unghie scure, scarpe scure, vestito bianco. Una madonna scappata da un bordello in fretta e furia, che nel momento di mettersi a correre per salvarsi dalla cinghia di madame Savoyarde si è infilata le décolleté di Manolo, non lo stilista, il travestito con cui stava dividendo il giaciglio in attesa che dalla porta nascosta nella parete facesse capolino Mr. Dick, il giornalista.
Come so di Manolo e Mr. Dick? Miei cari, a frequentare madonne si impara a riconoscere i peccati. Questa me la disse una volta Erich.
Naturalmente non è la Virginia che sto guardando ora ad essere scappata da Mr. Dick. Quella è spuntata fuori dall’accostamento imprudente delle scarpe nere con il tubino bianco senza calze.
Virginia, di ora, quella appoggiata alla parete non so ancora nulla. Non so nemmeno se valga la pena di scoprire che fuma sigarette alla menta e che porta in borsa sempre un pacco grande di salviettine detergenti per bambini, anche se non ha figli, ma ci tiene ad essere idratata e pulita, sempre.
D’altro canto non vorrei essere io la sua delusione più grande dopo il libro sugli angeli custodi che le hanno regalato a Natale. Dovrei confessarle la mia avversione verso i cani di piccola taglia, anche se lei non ha cani oltre che bambini, ma è pur sempre una confessione ammettere un’avversione.
Noto che scivola un poco con le spalle sul muro, un piccolo escamotage coreografico per seguire la musica discreta che entra nella stanza, qualcuno ha preso coraggio e ha deciso di creare un po’ di atmosfera da jazz in svendita a 4,99€ a cd.
Tornando a noi due: io e Virginia, credo proprio che aspetterò a sussurrare un neutro “come va?” , aspetterò che lei si volti e mi guardi per bene, in viso, in occhio, che ci si riconosca in questo stato di apatia fisico sentimentale che ci impedisce di toccarci felici. Virginia ha coraggio a rimanere nella stessa stanza, ricerca quell’imbarazzo delle cose che devono accadere ma non accadono, vera tragedia della vita. Io sono un pavido, lo ammetto, non me ne faccio scudo, mi presto a soccombere ai miei desideri con perizia da cinico navigato e rimpianti da baro.
Tutto porterebbe a una scena da destino fatale: l’incontro che cresce nelle aspettative, la stanza in cui non entra mai nessuno, la luce che caldeggia gialla gli stucchi sulle pareti, la porta che rimane aperta sul corridoio dove sfilano le ultime ombre isolate. Sipari che non infastidiscono, esche per stuzzicare un esibizionismo che potrebbe, potrebbe, per Dio potrebbe accendere una passione, perché no Virginia?
Domande. Che altro rimane a chi come me, come noi, non si muove verso il centro delle stanze? Le dovrei dire il mio nome… sarebbe un inizio. Una introduzione istituzionale lo  ammetto, contro i mie colpi di scena mentali che ingaggiano duelli serrati con fanciulle dalla mente brillante, l’alito fresco e il seno sodo.
Proiezioni, proiezioni mia povera Virginia, ecco questo sono, confesso, anzi ammetto, anzi lo dichiaro, ne faccio una meschina ammissione: Io non so parlar d’amore.
Lo bramo, lo immagino, lo incoraggio nelle dinamiche. Nulla più Virginia mia, lascia che ti tenga un po’ con me, anche solo a distanza, anche solo in mente per qualche ora, non serve tu lo sappia, tu puoi stare dove stai ora. In attesa, in silenzio con l’orecchio pronto, i sensi all’erta a rispondere con gioia a un mio incoraggiamento.
Stai così, così sei perfetta nell’allontanarti dalla stanza senza voltarti, come se non ti fossi mai infilata in questa incubatrice con due finestre che nulla ha fatto crescere, nulla ha sviluppato il calore di questi due corpi in pochi metri quadri, nemmeno il germoglio di un sorriso.
Persa fu anche questa notte. Scrivete questo sul memoriale che non sbiadisce al sole.   

domenica 8 maggio 2016

TU

Tu che hai una canzone per ogni nascondiglio
Tu che ti nascondi dietro un battito di ciglio
Tu che hai dieci giorni per respirare a bocca aperta
Tu che galleggi sulle tue paure come un marinaio in mezzo alla tempesta
Tu che rimani ferma sotto una finestra
Tu che sei la mia più bella scoperta
Tu che pedali in punta di piedi
Tu che danzi anche se non lo vedi
Tu che piangi senza farlo mai
Tu che ti alzi e te ne vai
Tu che sorridi senza guardarmi
Tu che mi scrivi per non parlarmi
Tu che mi assomigli in tutti i miei sbagli

giovedì 5 maggio 2016

Ma come fanno?

Ma come fanno nei film?
Come fanno a correre sotto la pioggia e a citofonare sempre al momento giusto? Che lei risponde, perché è in casa mica con l’amica a sfondarsi di patatine e a piangere leggendole l’ultimo WhatsApp.
Come fanno a girarsi in mezzo a un marciapiede - con cinquemila persone che ti passano vicino, ti spostano, ti urtano, ti coprono la visuale- e incrociare lo sguardo proprio di lei, come fanno? Che anche lei è sullo stesso lato del marciapiede, a duecento metri di distanza, e sta camminando di spalle, ma si gira a sincrono, precisa, e lo guarda.
Come fanno a prendere un taxi al volo sotto la bufera di neve, entrare dalla porta destra e contemporaneamente dalla porta sinistra entra anche lei, sotto la bufera, e il tassista sorride! Come fanno? Che quando nevica i taxi non passano.
Come fanno ad arrivare sempre un decimo di secondo prima che l’aereo decolli, che il treno parta, che il traghetto salpi, che l’ascensore si chiuda, che il gallo canti… come fanno? Che anche lei non parte mai, e parti cazzo, hai detto che partivi.
Come fanno a entrare in chiesa e urlare: “No! Sposa me, non lui.”  E lui che non dice mai niente, rimane lì con la faccia da scemo e guarda la mamma, che sviene, e il padre di lei che vorrebbe picchiare quello che è entrato urlando ma poi guarda il viso della figlia e da una pacca sulla spalla al tipo: “vai, fa nulla se il ricevimento è già pagato, portala via e mandami una foto dalla spiaggia.” E la migliore amica di lei che piange felice, che sapeva già tutto la stronza.
Come fanno ad avere sempre la musica romantica? Che magari sei sulla metro e c’è quello col violino scordato che canta minuetto, come fanno?
Come fanno, dopo dieci anni, due guerre, una pestilenza, la perdita della memoria, tre anni di coma, il crollo di una diga, il rapimento da parte degli extraterrestri, come fanno a ritrovarsi sempre sul vialetto di casa con il prato bello rasato, lei che sta lavando i piatti e lo scorge dalla finestra della cucina, che sta sempre sopra il lavello la finestra, piange si asciuga le mani in fretta e corre fuori ad abbracciarlo, come?
Come fanno a urlare “ti amo” dal pontile quando la nave è già a cinquecento metri e lei sul ponte si gira, corre al parapetto e sussurra: “ti amo anche io”, e lui la sente, e sorride. Non può sentirti. Come fanno a sentirsi?
Come fanno a piangere a singhiozzo e a fare discorsi sensati sui rapporti di coppia senza farsi scendere il moccio dal naso?  
Come fanno a spogliarsi in penombra senza cadere con i jeans incastrati nelle caviglie, e le mutande, sì, le mutande, come fanno a strapparle in un colpo solo? Senza ferirsi poi…