Virginia la conobbi sul finire di una serata,
forse una serata con la pretesa di essere una festa da ricchi in una casa da
ricchi, al momento non saprei dire. Un incrocio di sguardi di sbieco un po’ arrossati
dal fumo e dall’alcool. Girovaghi con occhi sulle spalle dell’altro, a turno, con il bicchiere mezzo pieno in mano,
attraverso le porte di quel grande appartamento con i pavimenti di marmo vecchio e
brutto.
Fu non casuale, il fatto che ci trovammo
finalmente nella stessa stanza, appoggiati allo stesso muro. Non mi andava di
dover cominciare a parlare, volevo stare un attimo fermo e guardarla, e basta.
Poteva guardarmi anche lei, glielo avrei detto: puoi guardarmi. Non mi
guardava, io sì. Non sapevo ancora si chiamasse Virginia, che se l’avessi
saputo avrei subito fatto l’associazione con la Vergine, la santa, non il segno
zodiacale. Virginale, pelle chiara, occhi scuri, unghie scure, scarpe scure,
vestito bianco. Una madonna scappata da un bordello in fretta e furia, che nel
momento di mettersi a correre per salvarsi dalla cinghia di madame Savoyarde si
è infilata le décolleté di Manolo, non lo stilista, il travestito con cui stava
dividendo il giaciglio in attesa che dalla porta nascosta nella parete facesse
capolino Mr. Dick, il giornalista.
Come so di Manolo e Mr. Dick? Miei cari, a
frequentare madonne si impara a riconoscere i peccati. Questa me la disse una
volta Erich.
Naturalmente non è la Virginia che sto guardando
ora ad essere scappata da Mr. Dick. Quella è spuntata fuori dall’accostamento imprudente
delle scarpe nere con il tubino bianco senza calze.
Virginia, di ora, quella appoggiata alla parete
non so ancora nulla. Non so nemmeno se valga la pena di scoprire che fuma
sigarette alla menta e che porta in borsa sempre un pacco grande di salviettine
detergenti per bambini, anche se non ha figli, ma ci tiene ad essere idratata e
pulita, sempre.
D’altro canto non vorrei essere io la sua
delusione più grande dopo il libro sugli angeli custodi che le hanno regalato a
Natale. Dovrei confessarle la mia avversione verso i cani di piccola taglia,
anche se lei non ha cani oltre che bambini, ma è pur sempre una confessione
ammettere un’avversione.
Noto che scivola un poco con le spalle sul
muro, un piccolo escamotage coreografico per seguire la musica discreta che
entra nella stanza, qualcuno ha preso coraggio e ha deciso di creare un po’ di
atmosfera da jazz in svendita a 4,99€ a cd.
Tornando a noi due: io e Virginia, credo
proprio che aspetterò a sussurrare un neutro “come va?” , aspetterò che lei si
volti e mi guardi per bene, in viso, in occhio, che ci si riconosca in questo
stato di apatia fisico sentimentale che ci impedisce di toccarci felici.
Virginia ha coraggio a rimanere nella stessa stanza, ricerca quell’imbarazzo
delle cose che devono accadere ma non accadono, vera tragedia della vita. Io
sono un pavido, lo ammetto, non me ne faccio scudo, mi presto a soccombere ai
miei desideri con perizia da cinico navigato e rimpianti da baro.
Tutto porterebbe a una scena da destino fatale:
l’incontro che cresce nelle aspettative, la stanza in cui non entra mai
nessuno, la luce che caldeggia gialla gli stucchi sulle pareti, la porta che rimane
aperta sul corridoio dove sfilano le ultime ombre isolate. Sipari che non
infastidiscono, esche per stuzzicare un esibizionismo che potrebbe, potrebbe,
per Dio potrebbe accendere una passione, perché no Virginia?
Domande. Che altro rimane a chi come me, come
noi, non si muove verso il centro delle stanze? Le dovrei dire il mio nome…
sarebbe un inizio. Una introduzione istituzionale lo ammetto, contro i mie colpi di scena mentali
che ingaggiano duelli serrati con fanciulle dalla mente brillante, l’alito
fresco e il seno sodo.
Proiezioni, proiezioni mia povera Virginia,
ecco questo sono, confesso, anzi ammetto, anzi lo dichiaro, ne faccio una meschina
ammissione: Io non so parlar d’amore.
Lo bramo, lo immagino, lo incoraggio nelle
dinamiche. Nulla più Virginia mia, lascia che ti tenga un po’ con me, anche
solo a distanza, anche solo in mente per qualche ora, non serve tu lo sappia,
tu puoi stare dove stai ora. In attesa, in silenzio con l’orecchio pronto, i
sensi all’erta a rispondere con gioia a un mio incoraggiamento.
Stai così, così sei perfetta nell’allontanarti
dalla stanza senza voltarti, come se non ti fossi mai infilata in questa
incubatrice con due finestre che nulla ha fatto crescere, nulla ha sviluppato
il calore di questi due corpi in pochi metri quadri, nemmeno il germoglio di un
sorriso.
Persa fu anche questa notte. Scrivete questo
sul memoriale che non sbiadisce al sole.