venerdì 30 ottobre 2015

MARGARET #9

Hugine Bedford, detto “dreamer”.
Vaffanculo!
Te la vuoi cavare con una paginetta e una frase fatta buttata sul fondo: “non siamo fatti per il quasi centro”?
Vaffanculo!
I saluti vieni a prenderteli da solo, se ci riesci.
Non so cosa tu abbia in quel cervello da bipolare, bipolare nel senso che sei matto e scemo.
Cosa pretendi? Cos’è che non ti basta mai?
Sei in un manicomio criminale. Hai capito? Manicomio e criminale, una tombola che riesce solo a quelli dotati come te (non sto parlando del tuo cazzo stavolta). Credi che sia facile pensare a un amore vicino a parole come: manicomio e criminale? Pensi sia facile alzarsi la mattina e crederci a questa cosa?
Non ho il diritto di essere disperata? Di voler credere, a volte, magari solo per lo spazio di una patetica letterina, che un giorno potrà tornare questo amore?
Vaffanculo!
Non mi trascinerai nella tua folle rincorsa dell’odiamoci se non possiamo fare altro. No.
So cosa vuoi fare, pensi che non ti conosca? Che non conosca le tue reazioni improvvise e i tuoi scatti alla uno contro cento? Hai sempre fatto così quando non ti stava più bene qualcosa, o semplicemente ti annoiavi.
Senti questa: io ti amo. Semplice e senza sconti.
Sei capitato tu, non bastano tutti i santi di questo mondo a pregare di cancellarti. Che sprofondasse tutto questo amore che ho per te, che sprofondasse nel posto più buio e silenzioso della terra.
Bastardo, arrogante, egoista figlio di puttana.
Non puoi andare via così!
Lasciarmi senza essere vicino alle mie labbra, senza stare in silenzio davanti a me. Non si può fare così. Non è giusto così. Non vedere che piango, non ascoltare i miei insulti. Non è così che si lascia una persona. Non sei umano.
Ci hanno battuti? Chi sono? Siamo solo io e te, stronzo!

Bang/Bang my sweet dick.
                                

tua Margaret

lunedì 26 ottobre 2015

NERO

Con il suo vestito nero che le copre i piedi, così lungo che è inchiostro sul pavimento in una pozza che non ha confini tra lei e il pianoforte che suona davanti a tutti loro. Immersa nel liquido della sua musica che rovescia nei loro bicchieri, in mezzo ai loro silenzi, alle loro spalle, sulle battute e sulle facce da recita di cena a due.
In questo posto che non ha indirizzo, non accetta prenotazioni, accoglie chi trova la porta stretta in mezzo al vicolo alle spalle di vita veloce e urlante di fine settimana da uscite di sicurezza.
Dove tutto è senza colore che riflette, solo opachi e scuri, e candele. Lei suona per non perdere il senso del tempo, per le sue dita d’avorio e per stare lì.
Vorrebbe essere amata su questo sgabello, dove si farebbe fatica a stare in equilibrio in due se non stretti e incastrati, non è possibile, non aspetta più che entri e che arrivi ad appoggiare i gomiti sul legno lucido, con la sua faccia riflessa nella coda laccata. Quando arriva questo momento suona più veloce, più forte, le unghie grattano il bordo del legno dove cominciano i tasti. Ci sono mezze lune di vernice saltata come nelle pareti delle galere dove ti spingono con una mano in mezzo alle scapole. Magari spingessero così forte da spaccarti il naso contro il muro e farti pensare per un po’ solo al sangue che ti cola e ti finisce in gola. Sputerebbe e non sarebbe più solo nero.
Le rimane il piacere masochistico di presentarsi tutte le sere elegante e perfetta davanti al dolore, di potersi scegliere la musica che preferisce per aspettare che la notte finisca senza succedere. 

venerdì 23 ottobre 2015

DREAMER #8

Sabbia e spine.
Nessuno vince, si muore di sfinimento: 996 696 666 966, sei/nove/nove, sei/nove in mezzo al deserto, sabbia di qui e sabbia di lì, sabbia rossa e sabbia nera, sabbia in bocca e sabbia nel culo.
Attenta che ti pungi la lingua…
Che canzone c’era oggi nella stanza bianca dei matti?
“Canone” di Johann Pachelbel.
Non ho idea di chi sia questo Johann, ma è bravo. Mi ha commosso ascoltarlo, mi è venuta proprio a prendere tutta quella musica e io non potevo fare nulla per resistergli. Io che scazzo per un sopracciglio alzato, per una battuta che non mi piace, insomma io che sono una gran testa di cazzo, mi sono fatto buttare giù da uno che ha un cognome che non riesco nemmeno a pronunciare.
Sono uscito dalla stanza che non sentivo più la bocca secca e la testa era bella vuota.
E cosa fa una testa bella vuota? Mette tutto in fila: bello steso come un bucato che profuma di fresco. E pensa. Pensa, pensa, pensa…
E non va bene così, darling. Stare qui non va più bene, stare qui e stare così, non va più bene.
Adesso leggi.
“Circuito chiuso”, “cazzo di ricordi”, “io qui e tu lì”, “sospeso tra il sogno e la violenza”… chi è?
Te la caverai, con o senza smalto.
Vuoi rimanerci attaccata? Io no. Io voglio rimanerci dentro.
Ho incendiato, picchiato, insultato e sfondato porte. Tutto questo l’ho fatto io. E sono quello che sono, evviva! Dreamer il matto. Quello che non ti aspetti, quello che va bene finché ti fa divertire a ricreazione, che sputa nei frullati degli altri, si soffia il naso nelle tende delle aule e piscia dove non dovrebbe.
Margaret, ci hanno battuto. Separati e fatti odiare.
Non ascoltare quello che sentirai e non credere a quello che immaginerai.
Smettila di andare a cercare brividi dentro stanze protette.
Ti ho già allagato il cuore per giorni e giorni interi. Senza respirare e senza scuse.
Saluta Jeremy, saluta “Orizzontale”.

My perfect shot, non siamo fatti per un "quasi centro”. 

Dreamer



lunedì 19 ottobre 2015

SWING

Quanto gli piaceva andarsene in giro di notte per la città.
Un po’ a passo svelto, a passo doppio, a contro passo e giravolta, a saltare sul parapetto del lungofiume, in equilibrio sulle caviglie che suonavano ancora swing e profumo di acqua di colonia su colletti bianchi.
Le file di luci gialle appese tra un lampione e l’altro.
Le sirene delle chiatte: balene dalla pancia nera che si portavano sulla schiena tutto il ciarpame che per magia finiva nei magazzini e nelle botteghe mai sazie.
A fumarsi l’ultima su quella panchina di marmo, con la chiesa alle spalle, il prato ancora arrotolato per la notte: scuro e zitto.
E la luce… quella luce che dura un attimo, la luce a cavallo. Che cambia i colori, disarma le ombre e accende i rumori.
Felicità. Ecco cos’era. Mr. Arcibald Singleton era felice.
Felice di poter indossare calzini colorati sotto lo smoking, felice di accavallare le gambe con un caffè in mano, felice di notare il colore degli occhi della ragazza che vendeva rose nel chiosco sotto casa. Felice di accorgersi, di nuovo, dopo molto tempo, che dopo le ventuno se apri la finestra e inspiri con lentezza senti l’aria di neve che è già lì.  
“Sensibilità ritrovata”, così se la diceva questa sensazione che aveva cominciato a rilassare la mascella, a rallentare il passo durante il camminare. A scoprire che il lato di strada che percorreva tutti i giorni per andare in ufficio non fosse necessariamente il migliore, ritrovarsi sul lato opposto fu l’ennesima banale e sconcertante scoperta. 
Era meglio.
Non sapeva dove fosse andato a pescarla tutta questa attenzione per le cose che accadevano, era sempre stato uno che osservava con attenzione, questo si. Ma adesso era diverso, era come se le cose, che accadono, osservassero lui e gli dicessero: “Prego Mr. Singleton, si accomodi, siamo qui per lei, per renderla felice.”
C’erano giorni in cui all’improvviso si fermava in mezzo alla strada, o in mezzo a una stanza, sulle scale o dovunque si trovasse. Si bloccava e rimaneva con il collo immobile e gli occhietti che saettavano a destra e sinistra senza muovere il viso, a ricercare il trucco. Ad attendere che saltasse fuori qualcuno da una botola nel terreno, da dietro un albero, che si calasse da una nuvola… insomma qualcuno che arrivasse a dirgli: “Naturalmente è tutto uno scherzo, non c’è nessuna felicità, nessuna sensibilità, lei è vittima di un esperimento. Tra poco tornerà alla sua vita di sempre: tra percorsi sempre uguali e calzini blu.”
Non succedeva nulla, non arrivava nessuno.
Dopo un po’ non si bloccava più, non si sentiva in difetto, aveva smesso di cercare il motivo per questo e per quello.
Se doveva passeggiare passeggiava, se era in ritardo ritardava, se era arrabbiato correva, se era solo cantava, spesso faceva queste cose tutte insieme. Tranne il ritardo, quello arrivava sempre prima di lui.

E prima di addormentarsi diceva sempre: buonanotte. 

venerdì 16 ottobre 2015

MARGARET #7

Ho comprato delle piantine, cioè, sono dei piccoli cactus. Il motivo principale per cui li ho scelti è che posso abbandonarli al loro destino per un sacco di tempo.
Siamo due cactus: spinosi e con la sabbia sotto i piedi, ma non molliamo.
Le chiamano piante grasse. Tu le puoi lasciare giorni senz’acqua e senza concime e queste invece di crepare, ingrassano.
Va beh cazzo… scusa!
Io voglio rimanerci attaccata.
Certi giorni però mi fanno male le braccia, e le spalle tremano e ho paura che mi scappi via. E mi metto a pensare che non sono stata capace io a trattenerti, o tu sei troppo bravo a tirare dalla tua parte, e diventa tutto un gioco di equilibri al massacro.
Facciamo che per un po’ i ricordi li trattiamo da parenti invadenti, non cerchiamoli e cambiamo marciapiede se li vediamo in giro.
Non pensare che sia diventata saggia all’improvviso.
Anche tu per me sei quello che sei, e sei nelle notti in cui mi strapperai le lenzuola.
Mi sa che uno di questi giorni passo dalla tua cacchio di pensione per matti dagli occhi belli, e tu mi lanci dalla finestra un po’ di quella roba che vi danno per farvi stare buoni e pensare alle vostre ragazze come liceali strette in twin-set color tabacco.
Dirsele fa bene. Non che io e te ci sia mai tirati indietro su questo lato. 
Scriversele però ti entrano sottopelle e sembra brucino di più. Se lo scrivi non puoi dire: “scusa non volevo”.
Pensiamo più a noi due e non ai due che stavano fuori prima. Io per esempio ho cambiato il colore dello smalto per le unghie, lo so che quello che usavo ti piaceva tanto, ma adesso io sono qui da sola con i miei piedi e devo imparare a cavarmela. Ti ho pensato mentre mi spennellavo, quindi stai calmo e pensa alla tua anima lì dentro.
Ti farà felice sapere che il colore si chiama “rouge 999” , ribalta e mischia i numeri, se ci riesci ti vengo a trovare di notte Dreamer…    

“…allagarti il cuore…”, ma non ti potevano venire quando eri fuori certe frasi?

Kiss/Kiss/Bang/Bang my sweet dick.


tua Margaret

lunedì 12 ottobre 2015

PRIMA O POI, MAI

“Quando è successo che sul sole ci hanno avvolto una garza?” Questo era Pleyton. Era chiaro che con il passare delle stagioni passasse anche un po’ di sole, chi rimane fermo come un idiota? Nessuno. Nemmeno uno che fermo ci vuole stare, ti gira sempre sotto i piedi questa terra maledetta. Per sempre.
Il posto dove aspettava era sulla collina da dove si vedeva l’ultima curva: quella dolce in salita che sbuca all’improvviso.
Chi ci passa da quella curva si ritrova nudo come… come? Come un dito leccato dopo l’amore, ecco!
Non che quelli di giù facessero a gara per salire a casa sua. Una camminata in salita per andare da uno che ti chiedeva sempre la stessa cosa: “L’avete vista?”
«No, non l’abbiamo vista.» Questo era il becchino.
Si, perché Pleyton per campare costruisce bare. E va da sé che la persona costretta a salire con più frequenza a casa sua sia Abelander, il becchino appunto.
«Eppure arriverà, vedrete.»
Abelander ormai non l’ascoltava più. Ormai lo sapeva che andava a finire sempre con le stesse domande e le stesse risposte. Quando arrivava da Pleyton tirava dritto fino alla lavagna del laboratorio e scriveva le misure: altezza e larghezza delle spalle.
Sotto, in piccolo, delle brevi note del tipo: “lasciatoci in fretta”, “sorrideva anche prima”, “niente velluto”, “pensavo lo sapesse”, “ha amato di sinistro”, “era ora”, e cose così…
«Sicuri che non è passata dietro alla chiesa? Rasente il muro, verso il tramonto, con un cappuccio sulla testa?»
«Sicuri Pleyton. Sicuri come siamo sicuri che la prossima domanda sarà: come fate ad esserne sicuri?»
«Come fate ad esserne sicuri?»
«Ma sei scemo o cosa? No dico, sono tredici anni che ogni volta che finisco la salita mi fai sempre le stesse domande, tanto che più di una volta ho avuto la tentazione d’infilarmi io in una delle tue bare, solo per il piacere di non doverti più ascoltare!»
Era buffo, perché Abelander era un pedante “azzuffa virgole” , sapeva le domande e sapeva le risposte, ma ogni volta ci cascava e s’imperticava come fosse la prima delle discussioni. Che con tutto gli voleva bene e si conoscevano da una vita.
Che nessuno sapeva chi fosse che dovesse arrivare, né che faccia avesse, né che cavolo avesse a che fare con Pleyton che non lasciava mai la collina.
Per un po’ giù se l’erano riempita la testa di teorie: un amore del passato, una sorella mai conosciuta, una donna che ha paura degli sguardi, una moglie abbandonata, una… una che aveva ordinato una bara e per sbaglio non era ancora morta.
Avevano chiesto ad Abelander se avesse visto qualche indizio in casa di Pleyton o nel laboratorio: una foto, una scritta sul muro, una veletta da vedova appesa sopra il letto, un nome su un libro.
Niente.
«Quello non aspetta nessuno, ve lo dico io. Ci prende in giro. Quello se ne sta da solo da troppo tempo e si è inventato che prima o poi qualcuno arriverà. Perché secondo voi io non gliel'ho mai chiesto: ma chi aspetti, chi è che dovrebbe arrivare? Sapete che mi risponde? “La prima, l’ultima e la prossima.”»
“Quello”, faceva due cose: bare e guardare la curva. Anzi tre: bare, guardare e domandare.
E fermo sulla collina a starci ore intere. Tutte se le faceva le stagioni, non c’era caldo, vento, pioggia o neve che riuscissero a sfiancarlo.  
E la curva dolce per sempre lì.
Il tempo passava e la gente moriva.
Abelander resisteva e sotterrava, era rimasto solo lui a salire da Pleyton. Ormai giù non c’era quasi più nessuno che ricordava la storia delle domande e delle risposte sempre uguali.
Forse Abelander sentiva vicina la sua di morte, o forse quella di tutti e due, sta di fatto che adesso appena finiva la salita era lui a domandare per primo.
 «Dimmi chi aspetti?»
« La prima, l’ultima e la prossima.»
Perché la curiosità è una brutta amante, Abelander era cotto di quella domanda. Ci aveva passato una vita e adesso voleva sapere.
«Pleyton matto bastardo! Dimmi chi aspetti o le prossime misure su quella lavagna saranno le tue, te lo giuro che per la prima volta non aspetterò che la vita faccia da sola. E ti dico un’altra cosa: se non mi dici chi aspetti, sai cosa scriverò vicino alle tue misure? “Che l’eternità se lo porti senza pace e senza speranze.”»
Pleyton lasciò cadere chiodi e martello. Lasciò cadere anche lui su una sedia. Tolse di torno tutto il fiato che aveva in corpo con un bel sospiro.
«Amico mio, è lei che aspetto. Lei che hai appena nominato, che tu credi una sciagura. Io che da questa collina ho visto passare un sacco di gente da fuori a dentro, a un certo punto ho pensato che prima o poi sarebbe arrivata, almeno a farsi un giro. Me la sono anche immaginata che sale e sbuca dalla curva col passo vuoto e le mani bianche, che mi guarda e mi esplode nel petto dicendomi: “per sempre”.»
Abelander pianse, e pianse tutto il tempo della discesa, e non salì più, mai più.
Il pazzo aspettava l’eternità: “la prima, l’ultima e la prossima”. E l’aspettava pure donna, quel cretino. Il passato, il presente e il futuro, tutto insieme per sempre. Folle!
Pleyton ci rimase per sempre sulla collina.
Solo un’asse di legno con scritto: “Mi basterebbe sapere che mi hai cercato”.   


venerdì 9 ottobre 2015

DREAMER #6

Presuntuosa e bellissima Margaret, vai a farti un giro con la tua rabbia insoddisfatta e ubriacati alla mia salute, tu che puoi.
E già che ci sei, tra un bicchiere e l’altro, vedi di prenderti un po’ di chiaro di luna. Sottile parafrasi di 'sto cazzo!
Fatti i conti con i tuoi di ricordi. Con i miei ci litigo io.
La vuoi sentire la canzone di un giorno qui dentro? Solo bassi, senza cori.
Ti piace così darling?
Sai com’è quando ti si spezza un dito della mano? Non senti niente al momento, poi c’è il cervello che urla: chiuditi, muoviti. Non succede niente, solo dolore che pompa come l’ira di Dio, come un fiume in piena. È il tuo sangue. Misto a quello che ti ricopre la mano.
Mi ha detto: “sono scivolato”, no cazzone, ti ho buttato giù io. È lo shock Margaret.
Su una cosa hai ragione: ci sono cascato. Giù fino al fondo di questo posto di merda tutto piastrelle e corridoi. Stavolta non  me l’hanno fatta passare.
Quello che fanno qui è sedare la tua reazione, non possono permettersi reazioni, non rientra nei protocolli.
Ma con i ricordi… con i ricordi li fotto.
E non sei mica tu che stai attaccata all’amore, e nemmeno io, è l’amore che ti sta attaccato, finché ce n’é.
Ce n’é Margaret?
Sei quella che sei, i tuoi difetti sono l’unica cosa che voglio ritrovare quando uscirò. E non ti sfonderò la porta, ti scoperchierò il tetto e ti lancerò un tifone da strapparti le lenzuola mentre dormi, e tanta di quella pioggia da allagarti il cuore.
Pit mi ha detto che ci tengono qui dentro perché fuori ce ne sono già troppi.
Tu sei una di quelli che stanno fuori. Con me, eravamo due in più.
E ci piaceva.
Se ho ancora la forza di scriverti queste cose sto reagendo.
Le tue parole sono meglio del Laroxyl che cerco di vomitare di nascosto.

Le flessioni fammele tu!

super/super/kiss/kiss my perfect shot

tuo Dreamer 



lunedì 5 ottobre 2015

DUE PAROLE

Odio mio padre.
Odio il suo tempismo nel rovinarmi i progetti, le giornate, il mio passato, e con un ultimo colpo di coda anche il mio futuro. E’ riuscito a morire di domenica notte. La telefonata del suo avvocato, l’unica persona che gli è rimasta accanto negli ultimi anni, è arrivata all’alba di lunedì mattina. Il lunedì mattina del mio passaggio a “senior executive”. Al lavoro mi aspettavano: il mio nuovo ufficio, un piccolo ringraziamento da parte del direttore di dipartimento, e una birra con i colleghi. Tutto questo non ci sarà, certo è stato tutto rimandato, ma non sarà la stessa cosa farlo al mio ritorno.
Infarto.
Prima classe.
Il volo per il rientro in Italia trattandosi di lutto è pagato dall’azienda. Mi spetta di contratto viaggiare comodo prima dei funerali.
Milano. 
Dieci anni che non ci torno, mi manca? Immagino che dieci anni possano giustificare una mancanza, per adesso mi sembra soltanto una lunga assenza. Un lungo sonno fuori dall’Italia e dalla mia città.
Il funerale è alle dieci, mi faccio portare in piazza Sant'Alessandro e seduto su una panchina fumo una sigaretta, la prima dopo due anni. Stupenda sensazione.
Aveva settantadue anni. Non ci parlavamo da dieci anni, da quando sono partito per Londra.
Che storia patetica.
L’ennesimo ritornello di un figlio che non parla con il padre: un archetipo quasi biblico.
Mi specchio dentro una vetrina per controllare di essere presentabile.
Non ho tutta questa voglia di andare “all’ultimo saluto”, ci sarò soltanto io: figlio unico. Il primo e l’ultimo.
Sarebbe contento che mi sono messo la cravatta e indosso un bel vestito, le scarpe nere e lucide.

Mi aspetto che qualcuno mi chieda: “Vuole dire due parole?”

“E allora papà… come sono stati questi ultimi anni?”
“Ne è valsa la pena papà?”
“Quante distrazioni e futili passioni, come le definivi tu, ti sei fatto scivolare accanto?”
“Generazione d’invincibili. Così mi dicevi ogni tanto, tu e quelli dei tempi tuoi.”
“Non è colpa di nessuno, forse un po’ più tua perché hai potuto scegliere certe parole per primo.”
“Capisco la rabbia di scoprire che è tutto un trucco.”
“Forza di volontà ne avevi. Dopo i trent’anni a me sembrava più un passatempo forzato perché non avresti saputo cos’altro fare.”
“Ti è mancato il coraggio. Capita.”
“La cosa più brutta è specchiarsi e vedere che un po’ ti somiglio, questo ti è riuscito.”
“Beh… saluta mamma, questo si.”

Meglio un prete qualunque.


venerdì 2 ottobre 2015

MARGARET #5

Non fare cazzate!
Oppure falle, fai quello che vuoi. Scusa ma oggi non sono proprio in vena, sono stanca di portare pazienza, in generale con tutti.
Avrei potuto scriverti in un altro momento e farmela passare, ma cosa sarebbe cambiato? Tu lì, e io qui. Punto.
Leggerti in questo stato è penoso. Reagisci Dreamer, piuttosto sfiancati di flessioni o di seghe, non lo so, fai tu. Ma piantala di andare a ripescarmi nei tuoi cazzo di ricordi da adolescente romantico. Non me ne frega nulla di quanto eravamo… eravamo, non siamo più e non saremo più. Adesso l’hai capita?
Adesso che lo leggerai: “non siamo più”. Ti scatterà qualche cosa in quella tua testa che ragiona a circuito chiuso: tu-io-tu-io-tu-io?
Hai una sola possibilità, uscire da lì e venire a sfondarmi la porta di casa a forza di baci con la lingua. Ma devi venirci cambiato, altrimenti vaffanculo e vaffanculo ancora. Altrimenti butterai tutto nel cesso un’altra volta.
Mi parli di quando avevamo sedici sfigatissimi anni. E allora? Cosa vorresti sentirti dire? Che sei stato il primo? Si, sei stato il primo. Che farti un pompino è il sogno di tutte le notti? Certo che lo è, ma non basta, non basta il tuo bellissimo cazzo.
Sei triste e sei stordito dalla roba che ti danno, te la danno perché non riesci a metterti insieme da solo, perché sei sempre sospeso tra il sogno e la violenza, e quando non li distingui più qualcosa dentro di te si mette in moto e distrugge.
Non verrò a trovarti.
Non voglio vederti così, non voglio lasciarti che mi guardi andare via e che ti metti in testa che non è stata del tutto colpa tua.
L’hai colpito per primo. Come un idiota ci sei cascato.
Io non sarò la più equilibrata tra le signorine ma non ti ho mai mostrato quella che non sono.
Deciditi a vivere quello che sei. Non sei pazzo, non hai il cervello che non funziona, funziona troppo.
Perché non mi hai portato via? Potevamo andarcene, bastava un secondo: girarci e andare via. 
Se mettessimo in fila tutti gli errori che ci siamo fatti ne uscirebbe un dizionario.

Non voglio tenerti in fondo al cuore per farti morire calpestato dal prossimo amore che arriverà. Decidi.

Kiss/Kiss/Bang/Bang my sweet dick. (fuck)
                                
tua Margaret