mercoledì 15 dicembre 2021

Lo Stato di Emergenza

 

Lo Stato di Emergenza

  C’era una volta a cupola, tal siffatto manufatto faceva da casello, dogana, frontiera, porta, o per lo più gnorante; semplice passaggio, attraverso il quale si accedeva allo Stato di Emergenza.

Bagnato da tre mari e cinto sul capo da catene di monti altissimi e innevati, codesto Stato di Emergenza si difendeva da li nemici alquanto bene, con un trucco antico ma assai funzionale: chi era fuori non poteva entrare e chi era dentro non poteva uscire.

Nello Stato di Emergenza gli omini liberi si distinguevano dagli uomini quasi liberi dal colore dei capelli; verde per i liberi e marrone, grigio, biondo, nero, rosso, castano, brizzolato, fumo di Londra, sangue di piccione, terra di Siena, muco di drago, cappella di fungo e blu di Prussia per i quasi liberi.

Il lettore più attento avrà già capito che i parrucchieri nello Stato di Emergenza erano proibiti e tali antiche botteghe non esistevano più. Il paesaggio variegato e assai affascinante dello Stato di Emergenza è cinto da moltitudini di spiagge di tutte le fogge e colori del creato, soffiato da caldi venti che sinuosi accarezzano le turgide colline colme di vigne che instancabili pompano il sacro nettare chiamato vino, altezzose insenature si gettano nel cristallo di mare nostrum e borghi antichissimi, chiese maestose, antiche rovine di civiltà gagliarde sono sparsi come polline dal passaggio della Storia, che nello Stato di Emergenza, lei sì, è entrata e uscita millenni e milleni e milleni di volte.

Tale Stato di Emergenza era una volta chiamato dalle barbare tribù: Bel Paese, ora, per editto dell’imperatore di ‘sto cazzo [ndr] è obbligatorio il nome promulgato nel titolo sopracitato.

martedì 6 luglio 2021

Il tesoro del pirata

 

Nel 1916 io ero un ragazzino con i pantaloncini corti e un paio di sandaletti di cuoio ormai frusti e rassegnati come l’Europa travolta dalla guerra. Vivevo nel piccolo borgo di Castel Fiorito, a circa, così mi avevano insegnato a scuola, 573 mt. sul livello del mare. Il mare se ne stava a una bella passeggiata tra i boschi di quaranta minuti da casa mia, tutta discesa lungo il sentierino che attraverso pini marittimi, spine, e qualche falso piano ti faceva sbucare a Castel Marino. Arrivarci era anche divertente, risalirlo, quel sentiero, invece era una bestemmia lunga e ripetuta, una faticaccia da somari. Fatto sta che io ero l’unico ragazzino rimasto a Castel Fiorito, i miei coetanei erano sfollati o rimasti orfani e quindi trasferiti in istituti non meglio specificati dove, avevo intuito, mettevano i bambini senza più i genitori. Io il babbo non l’avevo mai conosciuto, la mamma invece c’era ancora. I grandi rimasti nel borgo erano tutti anziani, tutti gli altri partiti soldati. Di ritorni, per il momento, nemmeno l’ombra. Di funerali senza corpi invece se ne facevano, arrivava prima la lettera: "…con dolore informiamo che il soldato Giuseppe Lanzetta è spirato nel compiere il suo dovere per la Patria... ", firmato: Stato maggiore dell’esercito, o qualcosa del genere, insomma suo figlio o marito o fratello o tutti e tre insieme, è morto. Chiama il prete che benedice la casa, che dice che un altro fratello della comunità è salito a Dio e si piange sopra una lapide in cui sotto non ci sta nessuno, perché far arrivare i corpi a Castel Fiorito è una faticaccia, e a Roma non ce l’hanno tutto quel tempo e mezzi per tutti. Si vedrà a guerra finita dov’è davvero sepolto Giuseppe, per adesso lo si piange. La scuola l’hanno chiusa, prima per mancanza di alunni, ma poi anche per mancanza di maestro, partito anche lui. Io avevo un librino di poche pagine che leggevo e rileggevo oramai da un anno, potevo recitarlo a memoria e lo conservavo con tanta cura, era il mio bene più prezioso. Si intitolava – Il tesoro del pirata- Da qui la mia perenne e mai sazia voglia di andare fino al mare, avevo il mio piano segreto per andarmene da Castel Fiorito prima che arrivassero a prendere anche me per farmi soldato. Piano semplice ma non facile. Rubare una barca e andare a cercare il covo dei pirati per trovare il loro tesoro. Con tutti i diamanti e l’oro avrei costruito una strada bella larga che partiva dalla spiaggia e risaliva fino al centro del borgo, per poter andare e tornare dal mare con la bicicletta, che non possedevo, ma che mi sarei comprato una volta finita la strada. Per questo, tutti i pomeriggi dopo pranzo, mi catapultavo giù per i boschi verso la spiaggia, ormai il sentierino lo conoscevo a memoria, tra saltelli, curve in discesa e guado col culo del piccolo fiume a metà strada, ero arrivato a metterci venti minuti, un record. Arrivato sulla sabbia, nascondevo i sandaletti dietro una roccia, dove la risacca non poteva arrivare e cominciavo camminare, un po’ sulla spiaggia e un po’ al riparo dell’ombra della pineta che costeggiava tutta la costa. Non incontravo mai nessuno, perché in basso non ci viveva nessuno, troppo caldo e vento dicevano, la vita era in alto tra le terrazze di muretti a secco, qualche filare di vite, i pollai e le capre. Formaggio e latte non mancavano e pure il vino bianco, che però era più giallognolo e sapeva di aspro. Lo so perché la mamma una volta a settimana me ne faceva bere un quarto di bicchiere, perché fa bene al sangue diceva. A me però bruciava sempre lo stomaco appena lo bevevo. Avevo accumulato in un nascondiglio in pineta tutto l’occorrente per il mio viaggio in barca, mancava la barca. Quello era il problema più grosso. Non c’era un porto dove poterne rubare una, la costa in quel tratto era selvaggia e senza approdi, a parte un naturale molo di pietra formato da una penisola di massi che chissà quando si erano distesi in mare come un sacchetto di biglie rovesciate da un gigante. Quello sarebbe stato il mio punto di partenza, che avevo battezzato – molo del pirata-. Il mio armamentario da -marinaio- consisteva in un piccolo falcetto da contadino che avevo sottratto a Romeo, il vecchio vicino di casa, che infatti mi guardava di traverso con sguardo sospetto dal giorno del furto. Circa sei metri di corda ricavata unendo diversi spezzoni che avevo racimolato vagando per il paese, una brocca di ferro smaltato senza manico che avevo trovato sulla spiaggia e un bastone a cui avevo fatto una punta molto sottile che sarebbe servito per infilzare i pesci, per non morire di fame. Stavo cercando il modo di procurarmi degli zolfanelli e un cappello.