Nel 1916
io ero un ragazzino con i pantaloncini corti e un paio di sandaletti di cuoio
ormai frusti e rassegnati come l’Europa travolta dalla guerra. Vivevo
nel piccolo borgo di Castel Fiorito, a circa, così mi avevano insegnato a
scuola, 573 mt. sul livello del mare. Il mare se ne stava a una bella
passeggiata tra i boschi di quaranta minuti da casa mia, tutta discesa lungo il
sentierino che attraverso pini marittimi, spine, e qualche falso piano ti
faceva sbucare a Castel Marino. Arrivarci era anche divertente, risalirlo, quel
sentiero, invece era una bestemmia lunga e ripetuta, una faticaccia da somari. Fatto
sta che io ero l’unico ragazzino rimasto a Castel Fiorito, i miei coetanei
erano sfollati o rimasti orfani e quindi trasferiti in istituti non meglio
specificati dove, avevo intuito, mettevano i bambini senza più i genitori. Io
il babbo non l’avevo mai conosciuto, la mamma invece c’era ancora. I grandi
rimasti nel borgo erano tutti anziani, tutti gli altri partiti soldati. Di
ritorni, per il momento, nemmeno l’ombra. Di funerali senza corpi invece se ne
facevano, arrivava prima la lettera: "…con dolore informiamo che il
soldato Giuseppe Lanzetta è spirato nel compiere il suo dovere per la Patria...
", firmato: Stato maggiore dell’esercito, o qualcosa del genere, insomma
suo figlio o marito o fratello o tutti e tre insieme, è morto. Chiama
il prete che benedice la casa, che dice che un altro fratello della comunità è
salito a Dio e si piange sopra una lapide in cui sotto non ci sta nessuno,
perché far arrivare i corpi a Castel Fiorito è una faticaccia, e a Roma non ce
l’hanno tutto quel tempo e mezzi per tutti. Si vedrà a guerra finita dov’è
davvero sepolto Giuseppe, per adesso lo si piange. La
scuola l’hanno chiusa, prima per mancanza di alunni, ma poi anche per mancanza
di maestro, partito anche lui. Io avevo un librino di poche pagine che leggevo
e rileggevo oramai da un anno, potevo recitarlo a memoria e lo conservavo con
tanta cura, era il mio bene più prezioso. Si intitolava – Il tesoro del pirata-
Da qui la mia perenne e mai sazia voglia di andare fino al mare, avevo il mio
piano segreto per andarmene da Castel Fiorito prima che arrivassero a prendere
anche me per farmi soldato. Piano
semplice ma non facile. Rubare una barca e andare a cercare il covo dei pirati
per trovare il loro tesoro. Con tutti i diamanti e l’oro avrei costruito una
strada bella larga che partiva dalla spiaggia e risaliva fino al centro del
borgo, per poter andare e tornare dal mare con la bicicletta, che non possedevo,
ma che mi sarei comprato una volta finita la strada. Per
questo, tutti i pomeriggi dopo pranzo, mi catapultavo giù per i boschi verso la
spiaggia, ormai il sentierino lo conoscevo a memoria, tra saltelli, curve in
discesa e guado col culo del piccolo fiume a metà strada, ero arrivato a
metterci venti minuti, un record. Arrivato
sulla sabbia, nascondevo i sandaletti dietro una roccia, dove la risacca non
poteva arrivare e cominciavo camminare, un po’ sulla spiaggia e un po’ al
riparo dell’ombra della pineta che costeggiava tutta la costa. Non incontravo
mai nessuno, perché in basso non ci viveva nessuno, troppo caldo e vento
dicevano, la vita era in alto tra le terrazze di muretti a secco, qualche
filare di vite, i pollai e le capre. Formaggio e latte non mancavano e pure il
vino bianco, che però era più giallognolo e sapeva di aspro. Lo so perché la
mamma una volta a settimana me ne faceva bere un quarto di bicchiere, perché fa
bene al sangue diceva. A me però bruciava sempre lo stomaco appena lo bevevo. Avevo
accumulato in un nascondiglio in pineta tutto l’occorrente per il mio viaggio
in barca, mancava la barca. Quello era il problema più grosso. Non c’era un
porto dove poterne rubare una, la costa in quel tratto era selvaggia e senza
approdi, a parte un naturale molo di pietra formato da una penisola di massi
che chissà quando si erano distesi in mare come un sacchetto di biglie
rovesciate da un gigante. Quello
sarebbe stato il mio punto di partenza, che avevo battezzato – molo del
pirata-. Il mio
armamentario da -marinaio- consisteva in un piccolo falcetto da contadino che
avevo sottratto a Romeo, il vecchio vicino di casa, che infatti mi guardava di
traverso con sguardo sospetto dal giorno del furto. Circa sei metri di corda
ricavata unendo diversi spezzoni che avevo racimolato vagando per il paese, una
brocca di ferro smaltato senza manico che avevo trovato sulla spiaggia e un
bastone a cui avevo fatto una punta molto sottile che sarebbe servito per
infilzare i pesci, per non morire di fame. Stavo cercando il modo di procurarmi
degli zolfanelli e un cappello.