lunedì 28 settembre 2015

CAPPELLI

Ha cominciato a comprarsi cappelli da uomo. 
Il primo è stato nero di cotone, un cappellaccio molle da ragazzino, che le tira la fronte e le sfuma l’espressione degli occhi verso un taglio orientale. La scelta dei cappelli è nata una mattina in bagno, mentre fissava lo specchio e stava per iniziare a truccarsi.
Da tempo recita: “questa inutile parte da donna felice”, la definizione è sua.
Si sente un’attrice consumata. La parola “consumata” la fa sorridere, come si sorride di un difetto che si è sfuggito per troppo tempo e adesso è diventato una costante.
I rumori e le voci fuori dalla porta del bagno sono quelli normali, quelli di sempre.
Lei non muove un muscolo. Non si guarda più allo specchio, si limita a fissarlo come se potesse inghiottirla e farla ritrovare pronta e truccata in un’altra casa.
Si rende conto di essere diventata una feticista delle parole, le pesa e le appende come trofei nella sua testa.
I rumori “normali” della casa abitata, sono normali, certo questo non può negarlo. Non c’è nulla di strano a livello sonoro che non vada. Il problema è che “normale” non le va più bene. Lei vorrebbe sostituire “normale” con “familiare”, ma non ce la fa proprio. Ogni volta che ci prova è un conato di vomito.
Non parliamo della parola “trucco”, questa poi la fa andare proprio fuori di testa.
Ci voleva qualcosa che si potesse mettere e togliere velocemente, qualcosa per ricambiare la parte assegnata. I cappelli le erano sembrati una buona idea. Una provocazione, certo. Perché no?
“Se volete che sia la vostra attrice almeno fatemi mettere becco nei costumi e nei dialoghi.”
La prima mattina che era uscita di casa senza trucco e con un cappello in testa nessuno ci aveva fatto caso. Perché era normale che lei a un certo punto uscisse dal bagno e uscisse di casa. Lo faceva sempre.
Si era tenuta il cappello anche in strada: che gioia specchiarsi nelle vetrine.
Arrivata al lavoro, prima di entrare, il cappello l’aveva tolto. Anche se lo togli il cappello ti rimane in testa, infatti non è che la piega fosse quella da: “donna felice che felicemente esce di casa e arriva felice al lavoro”.
Il vantaggio è che quando ti guardano come se avessi qualcosa di strano in faccia, o in testa, è uguale, in ogni caso ti guardano. Il vantaggio è che lei lo sa che c’è qualcosa di strano. Lei, forte di questo teorema, sperava che finalmente qualcuno si accorgesse che qualcosa di strano c’era.
Cominciavano a esserci cappelli un po’ dappertutto in casa: cappelli appesi dove una volta erano appese borse, cappelli nei cassetti dove una volta c’erano pizzi e merletti, cappelli insieme alle calze, cappelli in bagno poi un’infinità.
Non aveva calcolato che anche la contrarietà diventa quotidianità se non genera cambiamento.
Era disperata.
Il tempo in bagno aumentava sempre di più, la sua zona d’ombra, il suo territorio franco in cui poter dilatare l’attesa e rimandare l’entrata in scena.
Dopo sei mesi non aveva più voglia di cappelli. Si erano rivelati un trucco anche loro.
Cercava di tornare a casa il più tardi possibile. Di uscire il prima possibile.
C’erano oggetti che odiava: il divano, lo spazzolino da denti, la borsa di tela gialla che usava per la spesa, perfino il tasto dell’ascensore che indicava il suo piano.
Era chiaro che lui non l’avrebbe mai esclusa dal suo spettacolo. Era troppo brava a recitare. Lei non si era mai sentita particolarmente brava in niente nella vita, le sembrava di fare semplicemente quello che andava fatto.
Una sera si accorse che se lasciava bollire l’acqua nella pentola e non faceva nulla, l’acqua spariva. Se non svuotava il cesto della biancheria per caricare la lavatrice, la biancheria usciva dal cesto e cominciava ad ammucchiarsi per terra. La vita andava avanti, da sola, anche senza lo spettacolo perfettino da coccolare.
Cominciò a sentire una strana voglia. Una spinta a cambiare le battute, a modificare i tempi delle sue azioni.
«Hai visto i miei pantaloni, quelli grigi?»
«Non hai mai avuto pantaloni grigi.»
Ed era subito silenzio e note stonate. Anomalie.
Era spassoso, magari un po’ cattivo, ma spassoso.
Una sera suonano alla porta: lui va ad aprire e si trova davanti il ragazzo che consegna le pizze.
«Guardi si è sbagliato non abbiamo ordinato le pizze.»
«Una pizza. Una margherita. Già pagato signora prima.»
Lei stava mangiando un’insalata di polipo e patate, da sola.
«Insomma basta! Che cosa ti succede? Prima cominci a metterti quei ridicoli cappelli, poi rispondi in modo strano, la casa è un casino e adesso mi prendi per il culo con questo scherzo della pizza. Non sei più tu.»
«Hai ragione sull’ultima frase, non sono più io, per te, non sono più quella che tu credi che sia. Ah, i cappelli… ho smesso di portarli da tre mesi, e avevo cominciato a indossarli quasi un anno fa. Dovevi arrabbiarti allora.»
    

venerdì 25 settembre 2015

DREAMER #4

Non mi fanno più tenere effetti personali in camera. Così chiamano le lettere e le foto che mi mandi: “effetti”, non “affetti”, che poveri aaaaaaaaaaaaaa.  Ho dovuto mettere tutto in una scatola di cartone marrone chiaro, ho firmato e hanno portato via tutto.
Mi permettono di scrivere solo perché il medico ha firmato che posso farlo.
Funzionerà tutta questa cura per proteggerci?
Da un po’ di giorni penso a una cosa. Non posso scrivertela darling, altrimenti non mi fanno più mandare lettere.
“Ehi! Non cancellate un aaaaaaaaaaaaaaaa, chiaro? Non ho scritto nulla, lo so che leggete tutto.
aaaaaaaaaaaaaaaaa, com’è leggere le vite degli altri? Lo so chi sei che controlla le lettere, ti ho visto quando mi hanno portato a fare il prelievo, aaaaaaaaaaaaaaa se cancelli le mie parole ti vengo a cercare quando esco… aaaaaaaaaaaaa.”
Scusa tesoro, è che non li sopporto quando ci guardano come se fossimo pericolosi.
Cerca di non preoccuparti per me, anche se mi piace quando scrivi le parolacce. Ti vedo che giri per casa con la sigaretta tra le dita, vedo che togli l’accappatoio solo quando hai troppo freddo altrimenti lo terresti per tutto il giorno. Sei a piedi nudi e non ti preoccupi di passare davanti alle finestre. Hai la bocca che sa di vino e di fumo. Non c’è bisogno che scriva altro. Fregatene delle teorie, dei tappeti, dei miei, dei finali. Tutti a bocca aperta rimarranno un giorno, come quando scommetti sui brocchi e arrivano primi perché sono più incazzati degli altri. Fanculo, siete tanti ma siete soli.
Cosa ci dicevamo la sera dietro casa tua?
“Se corri veloce e non aspetti nessuno arrivi primo ma solo”, è vero che avevamo sedici anni, ma secondo me funziona ancora.
Qui è dura, ho spesso mal di testa. Quando riesco a dormire non sogno mai.
Mi sembra sempre peggio ogni giorno che passa, non capisco cosa vogliono.
Non è vero che sento la tua voce, ti ho mentito. L’ho scritto perché ho paura che ti dimentichi di me.
Mi sento dentro una bolla, una bolla sgonfia e appiccicosa che si attacca al corpo e mi fa diventare pesante, come avere sempre dei vestiti bagnati addosso. Alzare il braccio e scrivere è pesante. Mi muovo più lentamente da quando sono qui, andare dal letto al bagno è sempre la stessa strada, i colori sono sempre quelli. Mi sforzo di alzare gli occhi e di guardare il cielo, ogni volta che mi riesce mi stupisco di quanto poco lo guardo. Sono le medicine mi dicono, sono per il mio bene. “Il mio bene”, dovrebbe essere mio, perché vogliono gestirlo loro? Io ti credo se mi dici che ci ritroveremo dentro l’acqua, a te ci credo.
Pioveva quella notte, pioveva forte, mi sembrava di avere delle mosche in faccia che volevano infilarsi in bocca e negli occhi, non vedevo bene. Non senti più niente, all’improvviso sparisce tutto, sei dentro una forza che ti stacca da terra, ti gonfia le vene e vuoi solo esplodere e colpire, colpire, colpire come una bestia.
Correva verso di me, tu non c’eri. Io…
Basta. Voglio scriverti qualcosa di bello.
Una cosa che non ti ho mai raccontato.
La prima volta che ti ho visto, a scuola, mi ricordo che avevi una maglia blu con una fila di piccole margherite che ti attraversavano il petto e ti giravano dietro la schiena. Io ho guardato prima la maglia e poi la tua faccia. Intendo dire che se tu non avessi avuto quella bruttissima maglietta forse non mi sarei accorto di te e non ti avrei notata. Ti ritornano in mente un sacco di cose quando l’unica libertà che hai è pensare.

Il prossimo bagno fallo al buio, solo con la musica e lascia la finestra aperta, anche se fa freddo lascia la finestra aperta; e prima di farlo aspetta che sia buio, aspetta la sera del sabato, e poi piangi se hai voglia. Sarà bellissimo scivolare nell’acqua calda e sentire le lacrime affogare.

Hai visto? Un’altra lettera, un’altra vasca…

super/super/kiss/kiss my perfect shot

tuo Dreamer 






lunedì 21 settembre 2015

LO GIURO!

Le lenzuola potevi cambiarle ogni dieci o dodici giorni, non ricordo più.
Mi ricordo bene quello che dormiva nella branda vicino alla mia. Era tranquillo, sembrava non rendersi conto di dove fosse. Sereno e incosciente ragazzino di soli diciotto anni, io ne avevo ventuno, pochissima differenza a casa, lì contava però. Con le guance pienotte e lo sguardo un po’ sorpreso, smarrito che si guardava sempre intorno come a dire: “Sta succedendo davvero?”
Quante urlate in faccia si è preso.
“Ti devi muovere!”, “Cazzo fai?”, “Nessuno va a dormire fino a quando non ha rifatto il letto!”.
Non c’era verso che lo facesse bene, o che lo facesse dentro i tempi permessi. Sembrava si muovesse a rallentatore.
Ormai lo sapevamo e cercavamo tutti di aiutarlo: “Più tesa la coperta.”, “La cintura, stringila.”, “Gli anfibi, sputaci sopra.”
Dopo due giorni il suo sguardo ha cominciato a cambiare, via l’incredulità di un gioco stupido, la vergogna e la mortificazione erano arrivate.
È come un disco rotto: Sveglia, sveglia, sveglia–Cinque minuti pronti–Cazzo fai?– Piantone? Piantone? Dove cazzo sei piantone?

Sveglia/barba/cubo/ginnastica/colazione/vestizione/bandiera/marciare/marciare/ mangia/marciare/baionetta/saluti/marciare/marciare/i gradi/saluta/giù i pantaloni/apri la bocca/chiudi la bocca/respira/mangia/pulisci gli anfibi/pulisci la fibbia/pulisci i cessi/pulisci i pavimenti/pulisci le pentole/pulisci i piatti/lavati i denti/fai il letto/luci spente.

Una sera siamo in camerata già pronti per andare a letto. Ispezione.
Tutti in piedi sull’attenti davanti alle brande. Entra il caporale: il caporale è stronzo proprio di grado, proprio di consegna, se sei caporale sei stronzo. Se sei caporale istruttore sei molto stronzo.
Silenzio. Nessuno fiata, adesso ripenso a quanto sia presente il silenzio di più di cento persone.
Camminata lenta, si ferma davanti a uno per uno e ti guarda proprio negli occhi, la prima reazione è quella di ridergli in faccia, ma ti passa dopo la prima ora che sei lì.
Arriva davanti a lui.
C’è puzza di sudore, la doccia puoi farla un giorno si e uno no, e siamo a luglio. Le federe dei cuscini sono ricoperte di aloni gialli, molti di noi hanno le vesciche ai piedi, che puzzano.
«Tu sei quello che non ce la fa?»
Silenzio. Non puoi abbassare lo sguardo o girarti e andare via. Non sono nemmeno vere domande, ti prendono per il culo.
«Tutti a letto, svelti. Spegnere le luci.»
Ci guardiamo io e lui prima di infilarci sotto le coperte, si perché sopra non ci puoi stare. Ci guardiamo e non so cosa dire.
Tutto è scandito, tutto ha un suo movimento e il tuo tempo è speso per imparare tutti questi movimenti.
Siamo schierati nella piazza d’armi: esercitazione per innestare la baionetta. È un ballo: estrai-punta-innesta. Tre movimenti tre.
Cominciamo, dobbiamo farlo tutti insieme, tutti coordinati seguendo i comandi.
Fa un caldo di merda e io ho le orecchie bruciate. Abbiamo tutti sete.
Urla, urla, urla.
Rifare. Rifare. Rifare…
Non ce la fa. Il caporale si mette davanti a lui.
Il suono dovrebbe essere un unico e pesante “clac”, ma c’è sempre una nota stonata.
«Non vi muovete fino a quando non lo fate tutti.»
Noi lo sappiamo che siamo lì sotto il sole perché lui non ce la fa, e siamo incazzati.
Dopo un po’ non te ne frega più niente, non vorresti, ma cominci a pensare che è un cazzo di lento di merda. “Porca puttana e agganciala questa cazzo di baionetta deficiente”.
Va in panico, ogni volta è sempre peggio, ha il caporale a un metro che urla i comandi a tutta la compagnia ma ha lo sguardo solo su di lui.
«Sei ritardato?»
Altra domanda che non aspetta risposta.  
Quando torniamo distrutti e sudati in camerata lui mi guarda di nuovo, sta per piangere, ma si trattiene.
«Io non ci riesco.»
Voglio solo farmi una doccia, uscire dalla caserma e cagare in un cesso pulito.
«Cazzo ti devi svegliare.»

Mancavano ancora circa trecentoquarantasei giorni.


venerdì 18 settembre 2015

MARGARET #3

Šostakovič, Dreamer. È un compositore russo.
Me l’ha detto Jeremy, che mi ha anche fatto ascoltare un suo pezzo pare molto famoso: Jazz suite no. 2: VI Waltz 2. Solo il nome è tutto un programma. Tipico di Jeremy sapere di musica classica e non ricordarsi la data del compleanno di sua madre. Fossi in loro vi farei ascoltare “A Wither Shade of Pale” dei Procol Harum, a me rilassa sempre un sacco, quando non mi metto a piangere.
So romantic la tua lista my sweet. So romantic e so bad!
Mi ricordo tutto, non scordarlo mai. 
Oggi è sabato. Il sabato mi faccio sempre un bagno lunghissimo, al diavolo la doccia e la sua precarietà che mi mette addosso. Me ne sto in acqua almeno un’ora, accendo le candele e mi porto una bottiglia di vino in bagno. Rosso. Hai notato che nelle nostre lettere c’è sempre una vasca da bagno? Forse dobbiamo ritrovarci insieme dentro l’acqua, forse il destino ci porterà in una grande vasca idromassaggio dove tu mi leggerai quella poesia che ti piace tanto e io ti darò fastidio mettendoti i piedi in faccia. Ci sarebbe anche del vino, e della musica. Il vino e la musica mi fanno diventare romantica… più il vino.
Dopo il bagno vago per casa senza meta, non ho voglia di fare nulla. Mi guardo i palmi delle mani cotti dall’acqua, guardo la pila di libri che ho in camera e che non ho ancora letto e mi fumo una decina di sigarette. La mattina è finita. Le mattine del sabato sono senza senso, senza scadenze.
Ho appeso il tuo disegno sopra il letto. Quel fumetto che mi hai fatto la notte prima che ti portassero via. Disegni veramente male.
Sai che ci sono passata un giorno davanti al tuo muro? Non ti ho salutato, ma anche io l’ho guardato per un sacco di tempo.
Come fai a pensare ancora all’ultimo anno di scuola? Mi sembra sia accaduto tutto in un’altra vita. Avevo ancora il piercing al sopracciglio che tu dicevi mi dava un’aria da pusher in disgrazia. Sei sempre stato un amante dei paragoni azzardati. Ma è vero, siamo stati felici.
Non pensavo mi rispondessi così in fretta, nessuno mi dice nulla di come stai. Non voglio vedere i tuoi genitori, che odio. Non voglio nemmeno più passare davanti a casa tua. Che siano tutti maledetti.
Ecco, il sabato pomeriggio lo passo a imbottirmi la testa di pensieri e teorie. Che ad un certo punto diventano tutte attorcigliate tra di loro e mi viene una gran voglia di spaccare tutto.
Ho comprato un nuovo tappeto. Quello vecchio l’ho buttato. Una mattina mi sono svegliata e camminarci sopra mi faceva vomitare.
Non preoccuparti per il gruppo del martedì, ci vado solo perché stare a casa mi annoia. Si, un po’ mi diverto a vedere le facce smunte riprendere vita quando tiro fuori qualcosa di divertente che quei sei o sette patologici del sesso si sono solo immaginati. Sono tutti molto soli, hanno un sacco di storie pazzesche d’incidenti con gli aggeggi più strani. Ma “porco diavolo” vorrei dirgli, invece di passare l’adolescenza e la giovinezza chiusi in casa a costruirvi vagine finte non potevate uscire e cercarvi un po’ di movimento dal vivo? Pensa che mi sono inventata che al tuo compleanno ti ho regalato un festino con un travestito e una suora vera. Ah, il travestito si chiamava Simon e la suora Amber. Devi ammettere che quando voglio divento una vera fogna con questa bocca.
Cerca di stare tranquillo, sono felice che scrivi, lo sai che ho sempre pensato che a modo tuo hai del talento. Se la sera senti che il tempo ti fa il solletico, guarda le foto che ti ho mandato e magari scrivimi qualcosa, quello che vuoi.
Io lo so che ti porti dietro quella notte come una malattia, so anche che deve essere dura stare lì con le gambe a penzoloni sul bordo del letto e non poter uscire a guardare il mondo. Resisti e baciami, puoi farlo anche da lì. Ricordati tutte le sere in cui ci perdevamo a parlare di empatia, di quanto si possa essere collegati a filo continuo dalla luna al polo sud.
Io me ne sto qui fuori a spalare le ore con quello che mi hai lasciato. Ma non mi frega niente se devo farlo per anni, piuttosto mi faccio venire le vesciche alle mani a furia di sfregarle sulle cosce quando sono nervosa.
Adesso mi sto commuovendo brutto stronzo egoista, che cazzo ti è saltato in mente di lasciarmi qui da sola? Vaffanculo dreamer, era proprio necessario arrivare fino al limite? A me bastavi già così, ci davano già dei matti a sufficienza senza bisogno di fornirgli altri pretesti.
Ma cosa vuoi che ti dica? Quando due si trovano mica se la possono scrivere subito tutta la loro storia.
Ho letto da qualche parte che nella vita puoi scrivere mille incipit ma nessun finale, bella fregatura…
Beh, adesso basta che altrimenti provi a farti un altro tatuaggio e magari ti butti dentro qualcosa di tossico che ti devono tagliare un braccio, saresti capace perché sei veramente scemo quando ti ci metti.

Io vengo a sognarti tutte le notti, solo che tu hai gli occhi chiusi.

P.S. chi se ne frega del culo, teniamoci la vasca.

Kiss/Kiss/Bang/Bang my sweet dick.
                                

tua Margaret

lunedì 14 settembre 2015

TRUE STORY

a Paola



«Pensa che io grido aiuto quasi tutte le notti.»

Me la dice così. Io nemmeno le avevo chiesto niente, poi non è che ci fosse tutta questa confidenza tra di noi. Ho sempre fatto finta di niente. Per discrezione, per pudore, un po’ anche per paura.
Ci siamo incontrati per caso al bar sotto casa: un bar molto brutto, anonimo come altri mille in questa città, che sembrano fatti tutti uguali e un po’ finti.
“Eh…va beh, a una che ti dice così cosa le rispondi?”, penso.
Che è bella mica glielo posso dire subito.
Una che grida “aiuto” tutte le notti, dentro c’avrà qualche cosa di ammucchiato e pressato ben in fondo, che per non scoppiare, ogni ventiquattro ore si apre una valvola e gridi.
Cominciamo a bere i caffè che ci hanno portato, che con il caffè, un po’ il tempo lo freghi, ti prendi una pausa che quello, il tempo, mica può farci nulla. Quanto gli starà antipatico il caffè al tempo? Forse è per questo che la gente si è fissata che se bevi il caffè prima di andare a letto non dormi. L’ha messa in giro il tempo sta voce, mica è vera.
Ed eccoci qui: io e la mia vicina che mi fa prendere uno spavento quasi tutte le notti con un solo e unico grido: AIUTO!
Non le dico che la prima volta che l’ho sentita urlare mi sono svegliato come se qualcuno mi avesse preso per i capelli e trascinato giù dal letto.
Non le dico nemmeno che la seconda volta che l’ho sentita urlare mi sono alzato e sono andato a controllare che la porta fosse chiusa bene.
Non l’ha detto per chiedermi: “Scusa se ogni tanto ti faccio quasi venire un infarto”.
È stato un piccolo grido di aiuto, stavolta dentro al bar: “Pensa che io grido aiuto quasi tutte le notti”.
Il caffè l’ho finito, mi rigiro la tazzina tra le mani e mi sembra brutto non rivelarle qualcosa di intimo anche da parte mia.
Lo dico?
«Beh…uno dei miei sogni è rovistare dentro la spazzatura degli sconosciuti.»
«Scusa?»
Rimango impassibile, abbasso lo sguardo e lentamente allontano la tazzina vuota dal bordo del tavolo. Mi appoggio allo schienale e vado avanti.
«Sì, sogno di rubare i sacchetti di spazzatura che la gente ha appena buttato. Carta, plastica, misto. Tutto tranne l’umido. Quello mi fa schifo. Vorrei rovesciare tutto sul tappeto in salotto e curiosare. Che ne so… che marca di saponette usano? Comprano le mutande a pacchi da dieci al mercato oppure solo roba firmata? E le ricevute della carta di credito? E… gli scontrini, si gli scontrini mio Dio! Hai idea di quello che puoi scoprire andando a leggere gli scontrini degli altri?»
Mi guarda in silenzio. Se ne sta lì a guardarmi con le braccia incrociate e gli occhi fissi sui miei. Poi si sporge verso di me, lentamente, ma si avvicina talmente tanto che ormai è quasi sdraiata con la pancia sul tavolo. Ho il suo viso a tre centimetri dalla faccia.
“Come cazzo fa a non sbattere le palpebre?”, non faccio in tempo a finire questa inutile riflessione che comincia a parlare.
«Io, tutte le notti, sogno la faccia di un uomo di mezza età che mi fissa a tre centimetri dal viso. Proprio come sto facendo adesso con te. Mi fissa. Non dice niente e non fa niente. Sta lì e mi fissa. Tutte le notti.»
E si risiede normalmente.
“Ti prego torna qui.”
Ma mica posso mollare adesso.
«Io una volta ho avuto una crisi di panico. Di notte. Non respiravo più, piangevo e non respiravo, non respiravo e piangevo. Ho dovuto stare abbracciato al mio amico per quarantatré minuti, abbracciati a cucchiaio fino a quando non mi è passata. Con lui che mi massaggiava lo sterno che pensavo esplodesse a un certo punto.»
“Ah! Ti ho visto. Ho visto che ti è passato un secondo di dolcezza sul viso.”
Adesso mi prende una mano, mi stringe la mano destra con la sua sinistra. Non è una stretta maliziosa, è un contatto puro e semplice, come ogni tanto ho visto fare da chi dice di essere sensitivo o cose del genere.
E siamo così: con gli avambracci che attraversano il tavolino e le nostre mani intrecciate.
«Io, una volta. Si perché sono anche sonnambula. Comunque, una volta mi sono svegliata in cucina con un coltello in mano.»
Fa per lasciarmi la mano, io la trattengo e ci metto anche l’altra mia mano sopra la sua.
“Sei nelle mie mani…”.
«Io, che ti sento gridare aiuto, che sto qui seduto a sentirti raccontare di quanto dev’essere faticoso attraversare le notti per te. Io, che una volta che ti ho sentito urlare sono uscito di casa e ho appoggiato l’orecchio alla tua porta, sono rimasto così per dieci minuti, abbracciato alla tua porta. Io non ho paura di sapere che tutte le notti dentro di te si spegne la luce, non ho paura di coltelli e men che meno di uomini di mezza età. Io ho paura che adesso ti alzerai da quella sedia e non mi avrai nemmeno detto il tuo nome. Ho paura che per quanto possa cercare di capirti, non potrò mai fare un granché per aiutarti.»
Adesso le mani intrecciate sono quattro.
«Mi chiamo Alyssa. È scritto anche sulla casella della posta. Io non ho paura quando urlo, o quando sogno, o quando divento sonnambula. Le uniche volte che ho paura sono quando mi sveglio e mi ricordo cosa è successo. Non so nemmeno se abbia tutta questa voglia di sapere che tu mi capisca, però ho voglia di passare delle notti normali con qualcuno accanto, magari non tutte le notti, qualcuna.»
Buonanotte.


venerdì 11 settembre 2015

DREAMER #2

Mi hanno portato la lettera, sai che le fanno passare ai raggi X prima? Per vedere se dentro non ci sia droga o che altro di pericoloso per noi e per loro.
Sto guardando le tue foto, sono dipinti e maschere. Grazie.
Non ci posso credere che hai incontrato “Orizzontale”, e Flynt…
Eravamo nella stessa squadra, lui faceva la riserva di Steve. Mi ricordo la sua faccia da padella ammaccata e i capelli in dissolvenza già a quei tempi.
Come sta Jeremy? Quello la Colter se l’è passata di sicuro. Se vuoi essere certo di un soprannome non puoi essere superficiale. “Dritto al punto” diceva sempre il professore di lettere, ti ricordi?
È tanto che non scrivo, qui scrivono sempre i dottori, scrivono un sacco. E i preti leggono. Una catena di montaggio per curare e salvare.
Ogni tanto mi fisso a guardare fuori dalla finestra e ripenso a quanto eravamo felici a scuola l’ultimo anno. Ci sto delle ore a guardare fuori, che dopo un po’ non vedo più niente, sento solo delle voci. Soprattutto la tua.
Con ghiaccio.
Niente intervallo con me.
Un bacio da campioni.
Sei uno zero senza virgole.
Dai “Dreamer” salta (ti ricordi che mi chiamavi “Dreamer”?).
Nevica.
Non così forte.
Dove ti portano?
Ti scrivo, giuro, ti scrivo!
Ti faccio una foto.
Vai prima tu.
Basta guardarti.
Perché piangi?
Te lo farò leggere quando è finito.
Riportami a casa.
Domani ti spiego.
Le poesie mi fanno grattare.
Stringi di più.
E tante altre cose che non ho fatto in tempo a segnare. Da qualche giorno il quaderno lo tengo sul comodino. Il dottore dice di appuntare tutto quello che mi viene in mente e che mi turba. Per non deluderlo non gli ho detto che l’unica cosa che mi turba molto è il fatto di stare qui dentro. Non mi sembrava educato.
Oggi ho provato a farmi un tatuaggio con l’ago della flebo e della tintura di iodio, solo che al momento di ripassare i bordi è arrivata l’infermiera e ha cominciato a dare fuori di matto urlando di rivestirmi subito.
Da ieri è cominciata una nuova terapia: ci portano dentro una stanza tutta bianca, vuota e senza finestre. Ci lasciano lì dentro per un’ora ad ascoltare musica classica. L’unica cosa che mi lascia un po’ perplesso è che per un’ora ti fanno ascoltare sempre la stessa cosa. Ci hanno messo su un certo Stosticovic, Sostecovik o qualcosa del genere. All’inizio ognuno si faceva un po’ i fatti suoi, capirai mica vogliamo dargliela vinta e far vedere che sembriamo matti. Poi siamo finiti a danzare sottobraccio tutti in fila che sembravamo un corpo di ballo vero e proprio.
Appena torno ti porto a mangiare un hamburger in quel posto dove ci è piaciuto tanto. Quello con il bagno che ha una poltrona davanti al cesso, ti ricordi?
Qui mangio un sacco di patate e carote e passati di frutta e acqua.
Cosa fai il sabato? Me lo racconti la prossima volta che mi scrivi?
Il pomeriggio possiamo stare in giardino. Di solito dopo un po’ che cammino mi siedo sulla panchina e guardo il muro della recinzione, se guardo proprio con attenzione senza mai chiudere gli occhi vedo la gente che mi saluta attraverso il muro. Tu sei l’unica che mi manda i baci e dopo si lecca le dita.
Questa delle dita l’ho raccontata a Pit, quello che dorme con me, mica te lo saluto però, che poi mi angoscia tutto il giorno che vuole sapere cosa pensi di lui e tutto il resto.
Non so se sono felice che vai a quel gruppo il martedì, cioè lo so che ti fa bene e che ti diverti, però cerca di non raccontarle proprio tutte certe cose.
Però, se proprio devi, raccontale bene e magari esagera un po’, che alla gente piace quando arriva anche un po’ d’amore, che arriva per i fatti suoi in particolari che all’inizio mica li capisci subito. Puoi raccontare delle vie con gli alberi bassi, quello si. Cavolo darling che serata da batticuore quella.
Mi hai fatto ridere con l’autolavaggio, peccato che l’hanno demolito. Mi è dispiaciuto dargli fuoco non volevo proprio incendiarlo del tutto.
Dicono che faccio progressi, forse tra un po’ puoi venire a trovarmi. Ci vieni?
La sera è il momento più brutto, quel momento da quando hai finito di cenare a quando spengono le luci. Lì non mi sento mai tranquillo.
Alla fine ci sarà un motivo se mi tengono qua? Io mi sono trovato in mezzo, la scena me la rivedo tutti i giorni davanti agli occhi. Un secondo. Mi ha detto: “sono scivolato”.

Ci sentiamo. Scrivi sempre, e vieni a sognarmi di più.

P.S. Ancora con questa storia del culo e della vasca da bagno…?

super/super/kiss/kiss my perfect shot

tuo Dreamer  

lunedì 7 settembre 2015

GUERRE


C’è un momento, proprio un attimo, una frazione di secondo. Quel momento in cui l’orchestra inizia a suonare, che non si sente ancora nulla, che sono tutti immobili con le mani sugli strumenti. Elegantissimi in nero, e in lungo.
Ecco, quel momento è la sublimazione dell’attesa.
Ed è in quel momento che lui la vede. Lei è dall’altra parte del salone, a separarli un intero ricevimento. Sta un po’ in disparte, tra uno specchio e una colonna che le fa un po’ d’ombra sul viso.
L’orchestra suona.
Le teste s’inclinano, volteggiano negli abbracci formali del ballo.
Un oceano di schiene e gambe e piedi che nel caos ordinato trovano sempre spazi in cui infilarsi.
Lei si chiama Lys.
Lei lo vede quando lui comincia a camminare vicino alle pareti, danzando a modo suo per non urtare gli altri invitati.
Lui si chiama Arthur.
C’è quella luce gialla dei lampadari vecchi annebbiati dal cristallo, c’è il pavimento di legno in labirinti di forme incastrate da pazienti artigiani.
In una finta decadenza, dentro ricordi di balli sfarzosi di nobiltà dimenticate, dentro rituali che riportano ciò che non è mai stato.
Dentro un mondo che non è il loro, Lys e Arthur sono in precario rincorrersi sulla scia delle loro separate esistenze.
A lei, che non si è ancora mossa dalla protezione della colonna, viene offerto del vino da un cameriere in equilibrio sotto il suo vassoio.
“Ora sì che sono perfetta. Elegante. Con un bicchiere in mano, l’aria divertita ma non troppo,  lo sguardo leggero che fa finta di non accorgersi di lui”.
A lui, che si sposta senza fretta e che ha scelto la direzione più lunga, sono riservati gli sguardi del pettegolezzo e della curiosità.
« Arthur! Non speravamo proprio di rivederla così presto. Com’è andato il viaggio? È vero quello che si dice sulle truppe schierate al confine? Mio marito dice che servono solo a far titoli sui giornali e che non avranno mai il coraggio di attaccare.»
Sorriso amabile, mani in tasca. Elegante. Dal viaggio è tornato e la guerra è cosa fatta.
“Ballatevi gli ultimi che restano, signori, non voglio togliervi l’illusione della festa, non questa sera almeno.”
«Buonasera Contessa. Tornato solo per voi e la vostra famosa ospitalità. La guerra è il pettegolezzo dei nostri tempi, tutti ne parlano ma nessuno sa con esattezza come sono e come andranno le cose. Dite a vostro marito che i giornalisti sono i veri nemici.»
Lys fa qualche passo, davanti allo specchio la sua schiena è tutta per lui.
L’orchestra suona. Valzer.
Arthur saluta con cenni del viso, piccoli movimenti della mano, “buonasera” a chi gli sfila davanti a portata d’orecchio.
Sempre in cammino.
Prende il bicchiere da uno dei vassoi, che instancabili macinano chilometri cercando di essere il più discreti possibile, sempre ben forniti per alimentare la rassicurante sensazione che nessuno stia bevendo in modo sconveniente.
Questione di pochi attimi, è facile trovarsi fianco a fianco se si è in mezzo a tanta gente. Arthur si ferma.
« Arthur! Parlavamo di lei ieri sera, ci porta notizie fresche? Molti sono pronti a giurare che la cosa si risolverà con un trattato senza sparare nemmeno un colpo.»
Sorriso amabile, mano in tasca, bicchiere sotto il mento. Elegante. La guerra è cosa fatta.
“Nemmeno un colpo, a salve.”
«Come si dice… ne uccide più la penna che la spada, giusto? Ma sapete… non giuro mai con un bicchiere in mano. Alla vostra. Divertitevi.»
Posare il bicchiere vuoto sul vassoio e prenderne altri due è l’equazione che fa accelerare il destino.
Posare il bicchiere vuoto sullo stesso vassoio senza servirsi di nuovo e far finta di niente è essere una donna.
«La inviterei a ballare ma sfortunatamente ho le mani occupate.»
«Può darsi che accetti dopo che mi avrà offerto da bere.»
«Pratica e intelligente.»
«Bugiardo e simpatico.»
L’orchestra suona. A detta di qualcuno, sembrerebbe solo per loro.
«La prego di voler fare un brindisi con me.»
«Con molto piacere… Arthur, giusto?»
«Ascolta sempre le conversazioni altrui?»
«Sempre.»
«Alle promesse di un volto.»
«Alle promesse di un volto.»
C’è un momento, proprio un attimo, una frazione di secondo. Quel  momento in cui due bicchieri si toccano, ma non si sente ancora nulla.
«Scoppierà la guerra?»
«Per un'informazione così voglio almeno sapere il suo nome.»
«Lys.»
«Le fleur de lys…»
«Scoppierà?»
«Stanotte.»
«Perché non l’ha detto, prima?»
«Avrebbero smesso di suonare.»
“Sono sola, non ho più nessuno. Che occhi. Questa musica la conosco, mio padre… la domenica al Marais. Dovrei aver paura.”

“Che sfortuna incontrarti stasera. Andiamo via. Alla stazione, forse facciamo in tempo… non credo, ormai.”