Ha cominciato a comprarsi cappelli da
uomo.
Il primo è stato nero di cotone, un cappellaccio molle da ragazzino, che
le tira la fronte e le sfuma l’espressione degli occhi verso un taglio
orientale. La scelta dei cappelli è nata una mattina in bagno, mentre fissava
lo specchio e stava per iniziare a truccarsi.
Da tempo recita: “questa inutile parte da
donna felice”, la definizione è sua.
Si sente un’attrice consumata. La parola
“consumata” la fa sorridere, come si sorride di un difetto che si è sfuggito
per troppo tempo e adesso è diventato una costante.
I rumori e le voci fuori dalla porta del
bagno sono quelli normali, quelli di sempre.
Lei non muove un muscolo. Non si guarda
più allo specchio, si limita a fissarlo come se potesse inghiottirla e farla
ritrovare pronta e truccata in un’altra casa.
Si rende conto di essere diventata una
feticista delle parole, le pesa e le appende come trofei nella sua testa.
I rumori “normali” della casa abitata, sono
normali, certo questo non può negarlo. Non c’è nulla di strano a livello sonoro
che non vada. Il problema è che “normale” non le va più bene. Lei vorrebbe
sostituire “normale” con “familiare”, ma non ce la fa proprio. Ogni volta che
ci prova è un conato di vomito.
Non parliamo della parola “trucco”,
questa poi la fa andare proprio fuori di testa.
Ci voleva qualcosa che si potesse
mettere e togliere velocemente, qualcosa per ricambiare la parte assegnata. I
cappelli le erano sembrati una buona idea. Una provocazione, certo. Perché no?
“Se volete che sia la vostra attrice
almeno fatemi mettere becco nei costumi e nei dialoghi.”
La prima mattina che era uscita di casa
senza trucco e con un cappello in testa nessuno ci aveva fatto caso. Perché era
normale che lei a un certo punto uscisse dal bagno e uscisse di casa. Lo faceva
sempre.
Si era tenuta il cappello anche in
strada: che gioia specchiarsi nelle vetrine.
Arrivata al lavoro, prima di entrare, il
cappello l’aveva tolto. Anche se lo togli il cappello ti rimane in testa,
infatti non è che la piega fosse quella da: “donna felice che felicemente esce
di casa e arriva felice al lavoro”.
Il vantaggio è che quando ti guardano
come se avessi qualcosa di strano in faccia, o in testa, è uguale, in ogni caso
ti guardano. Il vantaggio è che lei lo sa che c’è qualcosa di strano. Lei,
forte di questo teorema, sperava che finalmente qualcuno si accorgesse che
qualcosa di strano c’era.
Cominciavano a esserci cappelli un po’
dappertutto in casa: cappelli appesi dove una volta erano appese borse,
cappelli nei cassetti dove una volta c’erano pizzi e merletti, cappelli insieme
alle calze, cappelli in bagno poi un’infinità.
Non aveva calcolato che anche la
contrarietà diventa quotidianità se non genera cambiamento.
Era disperata.
Il tempo in bagno aumentava sempre di
più, la sua zona d’ombra, il suo territorio franco in cui poter dilatare
l’attesa e rimandare l’entrata in scena.
Dopo sei mesi non aveva più voglia di
cappelli. Si erano rivelati un trucco anche loro.
Cercava di tornare a casa il più tardi
possibile. Di uscire il prima possibile.
C’erano oggetti che odiava: il divano,
lo spazzolino da denti, la borsa di tela gialla che usava per la spesa, perfino
il tasto dell’ascensore che indicava il suo piano.
Era chiaro che lui non l’avrebbe mai
esclusa dal suo spettacolo. Era troppo brava a recitare. Lei non si era mai
sentita particolarmente brava in niente nella vita, le sembrava di fare semplicemente
quello che andava fatto.
Una sera si accorse che se lasciava
bollire l’acqua nella pentola e non faceva nulla, l’acqua spariva. Se non
svuotava il cesto della biancheria per caricare la lavatrice, la biancheria
usciva dal cesto e cominciava ad ammucchiarsi per terra. La vita andava avanti,
da sola, anche senza lo spettacolo perfettino da coccolare.
Cominciò a sentire una strana voglia.
Una spinta a cambiare le battute, a modificare i tempi delle sue azioni.
«Hai visto i miei pantaloni, quelli
grigi?»
«Non hai mai avuto pantaloni grigi.»
Ed era subito silenzio e note stonate.
Anomalie.
Era spassoso, magari un po’ cattivo, ma
spassoso.
Una sera suonano alla porta: lui va ad
aprire e si trova davanti il ragazzo che consegna le pizze.
«Guardi si è sbagliato non abbiamo
ordinato le pizze.»
«Una pizza. Una margherita. Già pagato
signora prima.»
Lei stava mangiando un’insalata di
polipo e patate, da sola.
«Insomma basta! Che cosa ti succede?
Prima cominci a metterti quei ridicoli cappelli, poi rispondi in modo strano,
la casa è un casino e adesso mi prendi per il culo con questo scherzo della
pizza. Non sei più tu.»
«Hai ragione sull’ultima frase, non sono
più io, per te, non sono più quella che tu credi che sia. Ah, i cappelli… ho
smesso di portarli da tre mesi, e avevo cominciato a indossarli quasi un anno
fa. Dovevi arrabbiarti allora.»