venerdì 29 gennaio 2016

LAUREN #4

ROBERT - bugiardo
Di te si scriverà che sei morto appeso per i piedi come un eretico sopra un fuoco.
Tu hai mentito Robert.
Hai negato questo tuo peccato.
Sei un bugiardo.
Il tuo peccato è la parola tradita, parola che hai sempre disatteso, modificato, rinnegato e violato per un vile tornaconto personale.
Hai meritato la morte perché hai giurato il falso.
Escano dalle tue viscere le parole di verità che hai taciuto per una vita intera.

Lettera rinvenuta nella gola di Robert Sullivan – anni 44
Causa della morte: soffocamento


lunedì 25 gennaio 2016

Chon

Il giardino è diviso su due terrazzamenti: in quello più basso è piantata una fila di rose sul limitare della proprietà. Sul terrazzamento più elevato un ulivo protegge con la sua ombra un tavolo rotondo con il piano di ardesia e quattro sedie di ferro battuto dipinte di bianco con cuscini grigio cenere a rendere meno dolorosa la contemplazione del paesaggio fino al mare centinaia di metri più sotto.
«Vi guarderò dall’alto cadere dopo avervi spinto per il sedere.»
«Il fatto che lei sia un ospite pagante non la autorizza a prendersi gioco della bellezza e della poesia.»
Carol pronunciò la frase senza voltare lo sguardo, rimase nella stessa posizione che aveva anche prima che Chon arrivasse con una tazza di caffè tra le mani e una rima in bocca.
«Chiedo scusa, a tutte e tre.»
«Scuse accettate.»
«Posso sedermi?»
«La prego, il panorama è compreso nel prezzo.»
«La sua compagnia è gratis?»
«Lo è la mia educazione.»
Visti da dietro Chon e Carol indossavano entrambi dei colori bianchi, visti da dietro non pesavano sulla linea del cielo che cadeva sulla siepe di rose che spezzava l’azzurro e lo riprendeva più in profondità, dove il caldo sfocava in allucinazioni fluttuanti come sirene vestite di specchi.

Chon sorrideva. Carol accavallava le gambe. 

venerdì 22 gennaio 2016

LAUREN #3

I vestiti sono piegati e disposti in ordine sullo scaffale di acciaio che occupa la parete in fondo alla cella. Una piccola pila di abiti per ogni cadavere.
Sopra ogni pila c’è un cartoncino bianco con il nome della vittima seguito da una parola.
I tecnici della scientifica scattano le foto e poi prendono gli abiti e li infilano in sacchetti di plastica, i cartoncini vengono risposti da soli in buste trasparenti.
Lauren assiste a tutta la scena seduta alla scrivania dove la cornetta è ancora nella stessa posizione in cui lei l’ha lasciata.
Indossa una tuta di cotone blu e delle ciabatte di plastica, un cambio di emergenza che tiene sempre nell’armadietto dello spogliatoio. Sulle spalle ha la giacca di pelle nera con cui è arrivata stamattina al lavoro. Le hanno applicato tre punti al taglio sul dito.
Un uomo giovane che indossa occhiali di protezione e una tuta bianca di carta appoggia le buste con i cartoncini sulla scrivania, sono cinque.
Dietro di lui, ferma in piedi dall’altro lato della scrivania c’è il detective Anna Sterling.
«Lauren può leggere i cartoncini e dirmi se quello che c’è scritto le fa venire in mente qualcosa?» dopo aver fatto la domanda il detective Sterling si sposta vicino a Lauren e si posiziona dietro le sue spalle. Lauren non riesce a mettere subito a fuoco le parole, sta pensando che il detective ha un buon odore.
Legge i nomi dei suoi colleghi e le parole vicine e pensa che non hanno nessun senso.
ROBERT – bugiardo
CATE – malvagia
MARA – ladra
JACK – giocatore
EVE – esibizionista
Appoggia una mano sul cartoncino dove c’è il nome di Jack, ci batte sopra con un dito e si volta verso Anna Sterling. «Sapevo che Jack scommetteva: cavalli, partite di basket. Questo è tutto quello che mi viene in mente, era una brava persona, lavorava qui da dodici anni.»
Anna Sterling raccoglie i cartoncini dalla scrivania e li ripassa al tecnico della scientifica.
Prende una sedia e si siede davanti a Lauren.
«Quella domanda che le ha fatto l’uomo al telefono, quella sul peccato, pensa che volesse riferirsi a qualche episodio della sua vita, a qualcosa di particolare che le è capitato in passato?» Lauren ci ha pensato. Ci ha pensato da quando ha sentito l’uomo pronunciare la parola peccato.
«Non lo so, mi ha detto che tutti… anzi, che ogni corpo ha il suo peccato. Non lo so, mi dispiace, non so come aiutarvi.»
Il detective Sterling stacca un foglio dal piccolo quaderno che ha estratto dalla tasca interna della sua giacca, ci scrive sopra il suo numero di telefono personale e lo avvicina alle mani di Lauren che sono aggrappate al colletto della felpa. «Vada a casa Lauren. Può chiamarmi in qualsiasi momento.»
Lauren si alza dalla sedia e si dirige verso lo spogliatoio.
Sterling la segue. «Ha intenzione di andare a casa in ciabatte?»
«Non abito lontano, ho buttato via tutto quello che indossavo stamattina.»
«Posso accompagnarla se vuole.»
«Va bene, grazie, prendo la borsa e sono pronta.»
Il telefono comincia a suonare. Appena il tecnico ha rimesso la cornetta al suo posto, ha ricominciato a suonare.
Sterling corre alla scrivania, alza la cornetta e risponde: «Parla Sterling.»
«Passami Lauren detective»
Sterling richiama l’attenzione di tutti quelli presenti nella stanza, il silenzio è totale. 
Lauren la fissa dallo spogliatoio. Sterling copre con una mano il microfono del telefono e si rivolge a Lauren: «Se la sente di parlargli di nuovo?»
Lauren muove la testa veloce in un gesto affermativo e ritorna verso la scrivania.
Sterling le appoggia la cornetta all’orecchio e le prende una mano.
«Sono Lauren.»
«Se accetti i peccati degli altri potrai perdonarli Lauren, i tuoi colleghi non ammettevano i loro, non volevano dire di aver peccato, ma era così evidente Lauren, erano immersi nel peccato talmente in profondità da non riconoscerne più i contorni, ed è impensabile accettare uomini che cedano al peccato in modo arrendevole, senza un martirio. Io ho dovuto riportarli sulla strada Lauren. Cerca i loro peccati se vuoi che il tuo corpo continui il suo rigoglioso percorso.»
«Ha riattaccato.»
Sterling posa con calma la cornetta al suo posto. Silenzio. Il telefono rimane muto.
Guarda Lauren, la gira guidandola dalle spalle e la spinge in direzione dell’uscita.
«Perché io, perché vuole parlare con me?»
«Credo la stia usando come se lei fosse il suo pubblico e un suo discepolo. Qualcuno a cui lui possa esprimere la sua teologia deviata. Conosceva le vittime, quindi lui si aspetta che in qualche modo lei comprenda il suo gesto e lo giustifichi o meglio lo accetti come figura di guida spirituale.»
Lauren si ferma appena esce dalla porta d’ingresso della mensa. «Quando si dice: essere scelte da un uomo. Posso fumare una sigaretta prima di salire in macchina?»
Sterling prende un pacchetto di sigarette dalla sua tasca e ne accende una che passa a Lauren.

«Anche le donne scelgono, Lauren.»

lunedì 18 gennaio 2016

Carol

La casa era costruita sul lato ovest della collina, il salone centrale era dominato da una grande vetrata posizionata a favore del sole al tramonto.
Carol era seduta su una poltrona di velluto rosso che dava le spalle all’ingresso del salone.
Dalla mia posizione vedevo solo il suo gomito bianco appoggiato sul bracciolo.
«Perché vuole affittare la casa?»
«Perché lei cerca un compratore.»
«Quindi dovrebbe essere una vendita, non trova?»
«Non compro mai nulla senza prima averlo provato.»
«Non stiamo parlando di un paio di scarpe e io voglio vendere non affittare.»
«Io voglio affittarla per comprarla, diciamo che voglio un periodo di prova.»
«Quanti anni ha?»
«Trentadue.»
«È un po’ cresciuto per i giochi di parole.»
«Non gioco mai con le parole, anzi, non gioco mai in generale.»
«Tutti giochiamo con le parole, se lei non vuole comprare io non posso andarmene »
«Può rimanere, fino a quando non deciderò di comprare.»
«Mi pagherebbe per restare a casa mia?»
«La pagherei per darmi una copia delle chiavi.»
«E per poter usare il bagno.»
«E la camera da letto, mi hanno detto che ce ne sono sei.»
«Per lei quattro, una è la mia e un’altra è quella degli ospiti.»
Si alzò dalla poltrona e mi venne incontro porgendomi la mano.
«Sei mesi, e poi comprerà o se ne andrà.»
Le strinsi la mano e per me fu più che sufficiente, non ci sarebbe stato bisogno di firmare nulla, sarei stato in  quella casa con lei. Questo era quello che volevo, lei lo sapeva.
«Sei mesi, e vedremo chi dei due vorrà andarsene.»

venerdì 15 gennaio 2016

LAUREN #2

Peccato
sostantivo maschile

  1. Violazione dell'ordine morale, spec. in quanto motivo di condanna o di pentimento nell'ambito della legge e dell'esperienza religiosa.



     Il suono arriva costante, aumenta sempre di più, è un telefono che suona.
Lauren capisce che sta ascoltando il telefono della mensa squillare. Le lampade sul soffitto sono accese, le vede bene da sdraiata, le fanno male gli occhi e la testa.
Ha la schiena bagnata, ha freddo, l’odore è ancora fortissimo.
Deve alzarsi, cerca di mandare questo ordine al suo corpo: alzati. Ci riesce.
Si trova in piedi, sporca di quello che è uscito dai corpi, le gambe la portano fino alla scrivania dove c’è il telefono.
Si strofina la mano sul grembiule, il dito non sanguina più, pulsa soltanto.
«Pronto, dovete chiamare la polizia.»
«Chiamala tu la polizia Lauren.» La voce dice proprio il suo nome. Non ci fa caso subito, poi capisce che la voce conosce il suo nome e comincia a tremare. Lauren riattacca il telefono. Appena appoggia la cornetta alla base il telefono ricomincia a squillare, è immobilizzata da quel suono.
Non può fare altro, è un riflesso incondizionato: alza la cornetta.
«Sei viva Lauren. Colui che sopravvive è il prescelto.»
Non parla, quel liquido schifoso le ha bagnato anche i pantaloni, li sente pensanti, sente il freddo sulle natiche e rivoli che scendono lungo le gambe, guarda in basso e c’è una piccola pozza ai suoi piedi.
La voce continua: «Apri la porta della seconda cella, quella a destra, ci sono i vestiti dei tuoi colleghi, puoi rivestirli se vuoi, il peccato è scivolato fuori. Ogni corpo ha il suo peccato Lauren, tu sai qual è il tuo?»
Comincia a piangere, un lamento a bocca chiusa, per pudore e paura che lui la senta.
Stringe le labbra e chiude gli occhi.
«Puoi chiamare la polizia adesso, ricordati i vestiti. Ogni corpo un peccato, il peccato non si può nascondere piccola Lauren, non si può contenere dentro cotone o nylon. Il peccato sporca e puzza. Bisogna solo svuotarsi da esso.»
La comunicazione s’interrompe.
Si siede stringendo ancora il telefono in mano. Compone il numero della polizia, riesce a spiegare lucidamente cosa ha visto e cosa è successo, le dicono di stare calma che arriveranno tra poco.
Non riattacca il telefono, appoggia la cornetta sulla scrivania e la lascia lì.

Entra nello spogliatoio si leva i vestiti e si siede nella doccia ad aspettare.

lunedì 11 gennaio 2016

Belander Lugos

La bottega del becchino sta sul fondo del vicolo senza uscita che s’incontra appena girato l’angolo del campo santo, in direzione della campagna.
Il vicolo è poco più che una sconnessa mulattiera di terra secca, polverosa d’estate e fangosa  d’inverno, largo poco più di dieci passi ha sulla destra la cinta del cimitero, e sulla sinistra un filare di vecchie baracche tutte abbandonate e buttate le une sulle altre come ubriachi che ha colto il sonno. Il portone della bottega è largo quanto il vicolo, e sembra veramente che quella sia l’entrata solo per i morti; nero di sporcizia fino alle maniglie e smunto di legno vecchio più in alto. Si apre del tutto solo quando esce il carro per l’ultimo viaggio, nel mezzo ci han ricavato una porticina che ci si deve curvare come davanti all’altare per passarci attraverso.
Il Becchino a quel tempo era Belander Lugos, proveniente da una famiglia di becchini che di morto in morto era nel villaggio da più di trenta inverni. Belander viveva solo, dormiva su assi di legno sospese con delle corde a mezz’aria.
A chi gli domandava come mai avesse scelto una sistemazione tanto strana, lui rispondeva così: “Faccio un lavoro che mi avvicina a Dio, ma non posso allontanarmi nemmeno troppo dalla terra”.


venerdì 8 gennaio 2016

LAUREN #1

Il dito si avvicinò troppo alla lama e si aprì di due centimetri buoni, il sangue cominciò a colare sulle fette di pancetta disposte ordinatamente sul vassoio. Lauren spense l’affettatrice, si avvolse un tovagliolo sul dito e corse verso il lavandino situato dietro il bancone della mensa.
Lei era la prima che arrivava alla mattina, praticamente all’alba, alle cinque e mezza era lei che apriva la cucina: affettare, lavare la verdura, passare la frutta, sminuzzare, dividere il cibo in contenitori stagni erano tutti compiti di Lauren.
Adesso teneva il dito sotto il lavandino e sentiva i due lembi di pelle fluttuare sotto l’acqua fredda come se non appartenessero alla sua mano. Il sangue continuava a uscire abbondante. Alternava l’acqua fredda a succhiare con la bocca il dito, ma questa operazione bruciava troppo, l’acqua anestetizzava, tranne quando il getto riusciva a penetrare nel centro esatto della ferita, allora in quel momento era una scossa dritta alla testa, un dolore lucido e sottile come i coltelli che vedeva appesi davanti a lei.
Ripensava al momento in cui il dito non si era fermato e invece di prendere la fetta di pancetta aveva proseguito il suo movimento fino alla lama. Non era mai successo che si distraesse.
Spense l'acqua e sentì l’odore. 
La sua mente fece un collegamento semplice e veloce: era lo stesso odore che aveva sentito prima, lo stesso che le aveva fatto alzare gli occhi dall’affettatrice e perdere la concentrazione. Adesso era costante, era presente attorno a lei. “Qualcuno aveva lasciato la cella frigorifera aperta la sera prima?”
Strinse di più il tovagliolo attorno al dito, alzò il braccio e se lo tenne vicino al petto con l’altra mano mentre avanzava a piccoli passi verso il corridoio che portava alle celle.
Arrivata davanti alle tre porte delle celle frigorifere si accorse che il pavimento era bagnato, le sue scarpe bianche con la suola di gomma diventarono instabili, sotto c’era qualcosa di scivoloso e colloso al tempo stesso. Guardò meglio e vide che davanti alle porte c’era del liquido giallognolo, in alcuni punti era più denso, in altri si diradava in pozzanghere più grandi e quasi trasparenti.
Afferrò con la mano libera il maniglione della porta della cella centrale, tirò e senti l’aria infilarsi attraverso la guarnizione in gomma e l’odore diventare insopportabile di feci e urina.
Dentro la cella appeso per le caviglie c’era tutto il personale della mensa. Ognuno di loro era nudo con due cannule di plastica infilate una nella vescica e l’altra nell’intestino, il siero colato dai corpi aveva trasformato il pavimento in una palude di umori.
Lauren vomitò sulla soglia e poi svenne cadendo sul pavimento.


Il telefono nello spogliatoio della mensa stava squillando. 

lunedì 4 gennaio 2016

23.36

Alle 23:36 di un mercoledì notte cerchi di rimettere insieme i pezzi.
Ti ricordi la luce, dove c’è un cadavere c’è sempre la stessa luce. Fai sempre la stessa associazione d’idee: la stessa luce di un bagno della stazione, livida che puzza di piscio.
Sei sfinito, sfiancato, dopo tre ore a parlare con dei mentecatti che dicono di non aver visto e sentito niente. Vorresti solo dimenticare il cadavere e scopare. Hai voglia di scopare da questa mattina, chissà se la gente pensa che anche i poliziotti hanno voglia di scopare. Non te ne frega un cazzo di quello che pensa la gente. Un poliziotto, un giudice, un pittore, nella loro solitudine potrebbero essere tre demoni che sognano di ballare il tip-tap su tacchi a spillo.
Domani ti aspettano le foto.
Sapete come si fotografa la scena di un delitto? Il fotografo mentre scatta parla dentro a un microfono e registra quello che vede. Prima parte dalla foto più larga, quella che abbraccia l’intero ambiente dove è avvenuto il delitto, poi, in modo meticoloso, stringe sempre di più fino alla faccia della vittima. Dopo si concentra sui particolari: unghie, vestiti, oggetti attorno al corpo. Gli investigatori guardano le foto e ascoltano la registrazione, è il protocollo. Come guardare un film porno montato male. Alla fine ti abitui e guardi tutti in quel modo. Un’occhiata veloce e poi cerchi i loro particolari.
Hai quasi quarant'anni e ti chiedi se sei stanco.
Ti piacerebbe solo sapere se è tutto qui: cadaveri, luce, particolari, rapporti.
C’è una cosa che ti pesa nelle ultime settimane: leggere i referti sotto le foto. Vorresti non dover leggere tutte quelle espressioni formali: “sdraiata supina – braccio disarticolato- orbita sfondata- abrasione da trascinamento.” Ufficialmente le usi anche tu le frasi formali: “Signora sua figlia non ha sofferto”, come se si potesse non soffrire ad essere vittime di un omicidio.

Non vuoi pensarci, ma le foto ritornano. Hai cominciato a scattarti foto anche tu, da solo, non sono autoscatti, prendi il telefono, allunghi il braccio e rivolgi l’obbiettivo verso di te. Scatti in modo compulsivo, frenetico, a volte mentre continui a scattare ti spogli con una mano sola, ti ritrovi per terra, appoggiato al letto, in piedi. Il tuo corpo fa cadere oggetti, rovescia bicchieri e sbatte contro le porte. Smetti solo quando sembri un cadavere eccitato, le riguardi e vorresti essere ubriaco con lei.