lunedì 12 novembre 2018

Lo zen e l'arte di smetterla


Ho un problema di dipendenza. Sono un tabagista, un fumatore.
Ho deciso di smettere.
Ho sempre rispettato la decisione, non l’ho mai rinnegata. Semplicemente non l’ho attuata, politicamente un successo dunque.
Il mio piccolo e agguerrito consiglio di amministrazione che banchetta con le sinapsi della mia materia cerebrale ha votato all’unanimità la risoluzione di bandire le sigarette dalla mia esistenza. La legge è lì. Impressa nei miei ricordi ufficiali. Vergata con sprezzante razionalità sulle tavole dei miei buoni propositi. Ogni trentun dicembre saluto la possibilità che il nuovo anno mitighi le incomprensioni tra il mio buon senso e la mia forza di volontà assenteista, ma nulla. Fino ad oggi i due continuano ad ignorarsi come due ex buoni amici.
Questo ha provocato derive reazionarie e rivoluzionarie su entrambi i fronti: svolgo attività fisica, ma al contempo mi fumo sigarette alle otto del mattino; non fumo in macchina ma fumo in ufficio (nessuno mi controlla, denunciatemi), e così via… in un moto ondivago di salutismo e autodistruzione.
Nel 2015 non fumai per circa dieci giorni, lo ricordo con commozione come uno dei periodi più maturi della mia vita, purtroppo poi iniziai ad uscire con una ragazza che fumava e l’amore (per il fumo) trionfò.
La prima sigaretta la fumai sul balcone della cucina a casa di un mio amico, credo avessi tredici o quattordici anni, credo anche che la sigaretta fosse della madre del mio amico, siamo ancora amici. Dopo quella prima bionda, non ce ne furono più per molto tempo, proprio letteralmente non mi capitarono più bionde per le mani. Fu un periodo felice.
Continuo questa inutile autobiografia perché ho finito le sigarette, altrimenti mi sarei già alzato a fumarne una.
Non capisco perché una cosa che fa male e fa morire debba anche essere tassata, mi sembra molto poco democratico, si dovrebbe fare qualcosa, intendo dire che la società civile dovrebbe mettere delle bombe davanti alle sedi delle multinazionali del tabacco; fare rappresaglie violente verso i fumatori. Se mi sparassero alle gambe, forse smetterei, per lo meno per il periodo che passerei in ospedale non potrei fumare. Oppure far diventare le sigarette un bene di lusso, farle entrare nel “comparto del lusso”. Una singola sigaretta dovrebbe costare come una bottiglia di Amarone, o di Barbaresco, un pacchetto come una cassa di Dom Pérignon. A quel punto che fai, non ti bevi un bel rosso per fumarti una sigaretta? Siamo seri, dai. Oltretutto si metterebbe fine alla piaga dello scrocco, avete mai sentito dire: “scusa, non è che per caso hai un millesimato per favore?”. Si instaurerebbe anche un circolo virtuoso per i regali di Natale, che danno sempre molti pensieri, male che vada un tabaccaio aperto alla vigilia lo trovi sempre. Se poi vuoi chiederle di sposarti, e lei fuma, con una stecca ti dice “sì” di sicuro.
Con gli aumenti costanti ci arriveremo, ma la strada è ancora lunga.
La terapia migliore è quella del gesto eclatante: buttare il pacchetto mezzo pieno nel cestino. Non funziona mai, infatti dopo il terzo pacchetto che ho buttato mi davo del coglione due volte perché invece che un pacchetto in una giornata dovevo comprarne due.
Ho valutato anche la possibilità del supporto psicologico, ma poi ho pensato che dopo un’ora seduto dentro lo studio di un analista, all’uscita la prima cosa che vuoi fare è fumarti una sigaretta e contemplare il tuo misero fallimento a pieni polmoni.
Mi ha sfiorato anche l’idea di fare yoga, ma la forza di volontà per affrontare un corso di yoga mi è parsa di gran lunga maggiore di quella che dovrebbe servire per smettere di fumare, quindi nessuna inutile dispersione di energia.
Il mese scorso ho provato con l’autolesionismo: mi accendevo una sigaretta e dopo tre tiri me la spegnevo sulla mano, mi stava costando troppo in spese mediche. Inoltre, dopo la terza volta al pronto soccorso, il medico di turno ha riscontrato gli estremi per un TSO.
La sigaretta elettronica e i suoi derivati vanno ad uccidere il mio senso estetico decadente, quindi anche questo fronte è stato abbandonato.
Si è aperta per un periodo la fase: più qualità, meno quantità. Per casa sono apparse pipe, scatole di tabacco declinate in mille misture e aromi, scovolini e altri gadget per la manutenzione della pipa. Non ha funzionato, se vuoi fumare qualcosa prima che tirino un rigore decisivo al novantaquattresimo accendere la pipa è un’operazione troppo lunga, finisce che la scagli spenta contro il televisore. Poi la pipa chiama camino, giacche di tweed, pointer inglesi accoccolati sotto la scrivania, un cottage nella brughiera e una giacca da camera in cachemire. Tutto molto impegnativo.
Una cosa che funziona, almeno per me, è frequentare ex fumatori. Gente che ce l’ha fatta!
La frequentazione deve essere assidua, e bisogna sempre fare la fatidica domanda: come hai fatto a smettere? Per sentirsi dire la solita risposta: “eh… niente, ho smesso”. A quel punto il dialogo è più o meno il seguente.
-Come hai fatto a smettere?
-Eh… niente, un giorno ho detto non fumo più e ho smesso.
-Sì, ma intendo dire, qual è il segreto?
-Eh… niente, un giorno ho detto non fumo più e ho smesso.
-Sì, ma che sofisticate tecniche di autocontrollo hai usato per smettere?
-Eh… niente, un giorno ho detto non fumo più e ho smesso.
-Ok, ora però dimmi, proprio quando hai smesso, prima, intendo proprio il momento in cui hai smesso, quali sono stati i pensieri e le azioni che ti hanno portato a smettere?
-Eh… niente, un giorno ho detto non fumo più e ho smesso.
A questo punto tu sei talmente nervoso che ti accendi una sigaretta, ma puoi contemplare davanti a te la facilità zen con cui si può smettere di fumare.


mercoledì 7 novembre 2018

OSPITALE

“Fuma qui se proprio devi”, campeggia su di un bel totem posto sotto un pergolato la scritta pro-sensi di colpa. Ogni volta che la leggo mi viene in automatico di traslitterarla in “fuma qui se proprio bevi”. 
Il fatto di essere dentro un ospedale mi trattiene dal farlo e continuo a comportarmi civicamente bene, sensi di colpa compresi, tant’è che quando dopo la sigaretta percorro a ritroso la strada che mi riporta nella sala di aspetto -affollata come Il foyer della Scala a S. Ambrogio- mi sento osservato e disapprovato come irrispettoso e immorale delinquente dedito al vizio del fumo. Scivolo via veloce tra gli aspettanti portandomi addosso la mia aureola viola, retaggio di una pubblicità anni ‘80 che maldestramente cercava di mettere in guardia dal virus più virale (nel senso markettaro del termine) di tutti i tempi. 
Nel mio girovagare attendista dentro l’ospedale, oggi sono stato folgorato dal colore delle scale: verde acido su linoleum per gli scalini e verde simil fluo alle pareti. Chiude la sinfonia un corrimano in acciao satinato. Tonalità così  fuori sincrono rispetto all’immaginario ospedaliero di bianchi e azzurrini... 
Insieme  al corridoio con pareti arancioni farebbero la loro figura in un video clip musicale no-budget con scontata conclusione della band che si cimenta in un play-back sotto lampade da sala operatoria. 
Evidentemente gli ospedali moderni rincorrono anche loro l’ansia di essere “social” e “smart” rimanendo però, spesso, su di un rigurgito pop-art misto a villaggio turistico decadente. Probabilmente per la antropologica difficoltà nel coniugare miserie e sofferenze con touch-screen e tacchi a spillo. 
Nella smodata e confusa sbronza architettonica può anche capitare di incrociare pareti a volta in vetro-cemento con effetto retro illuminante da miracolo imminente. Il Dio-Cristo però non sembra dare un aiutino troppo convinto alla statistica del luogo. Concludono le scale mobili all’ingresso, due, si scende e si sale; archetipa metafora di lotta tra malattia e guarigione. 

lunedì 23 luglio 2018

MERDA, MERDA, MERDA


Quando ci vedevamo mi abbracciavi sempre. Io, che con le esternazioni di affetto ho sempre avuto un contenzioso aperto ho imparato anche in quei momenti.
All’inizio di un anno mi hai chiesto “cosa ti aspetti?” e io, da bravo studente, ho risposto con articolate aspettative. Tu hai detto “e se non dovesse accadere?”.
Rispondevi con domande non perché non volevi dare risposte, ma perché le risposte non sono interessanti, le domande che rimangono sì, su quello ci si lavora, e lì che s’impara a conoscersi, senza trovarle le risposte, cercandole.
Grato per i libri che mi hai fatto conoscere, per una donna in particolare, Medea.
I ringraziamenti sanno sempre di epitaffi scritti male, facciamo che questa è la bozza di un soggetto, magari un dramma, genere verso cui avevi un debole.
Tanta Merda.

martedì 15 maggio 2018

Fine pena mai


“Era così educato, salutava sempre, non disturbava, sembrava così tanto una brava persona…”

Immagino che i vicini di casa e i conoscenti in generale dell’uomo che mi sta tenendo prigioniero da tre ore nel mio ufficio dichiareranno questo al giornalista di turno.

Oggi, probabilmente il mio ultimo “oggi”, era il terzo giorno di colloqui. Dopo aver inserito un annuncio su un sito dedicato mi sono piovuti addosso centinai di CV, centinaia di vitae che io ho selezionato, scartato, convocato. Non mi rendevo conto che ogni volta che durante il colloquio declamavo l’espressione “tempo indeterminato” infondevo una aspettativa di molto superiore alle possibilità mie e dell’azienda per cui lavoro, un’aspettativa liturgica, una ascensione nel regno degli indeterminati, del fine pena mai.
Dopo i primi colloqui mi sorprendevo ad attendere il mutamento di espressione del candidato al momento di aver recepito che si parlava, eventualmente, di un contratto a tempo indeterminato. Pensavo: adesso sto per dire “indeterminato”, vediamo che faccia fa. Era come inserire un colpo di scena dentro a un racconto, accendere le luci e gridare “buon compleanno” ad una festa a sorpresa. Tutti, devo dirlo, cercavano di mantenere la maschera educato/professionale/ricettivo/disponibile, ma era impossibile, non gli riusciva, anzi, alcuni non ci provavano nemmeno più; probabilmente dopo decine di colloqui in cui il termine temporale del contratto era sempre ben sottolineato (sei mesi, un anno, una sostituzione, determinato con probabilità di rinnovo… ecc… ecc…) non serbavano più alcun pudore.
Io le guardavo queste facce molto verbali, da provino della vita, vedevo gli occhi spalancarsi, l’irrigidirsi delle mascelle, il lieve ma deciso spostamento del peso sulla sedia; leggevo chiaro le parole: “cazzo, sì!”, “non ci posso credere, la prego mi assuma”, “dice davvero? ha detto proprio indeterminato?”. Ed era in quel momento che la diga crollava, che veniva giù tutto e a me saliva la nausea. Spariva, di più, si scioglieva il candidato impettito con la camicia buona e appariva la desolazione dell’uomo solo e disperato. Venivano a galla frasi confidenziali sulla sua vita privata, si scopriva se e quanti figli avesse (che sono da mantenere, sottinteso), due famiglie (alimenti da pagare, sottinteso), che aveva lavorato per quindici anni sempre nella stessa azienda (azienda fallita, sottinteso), perfino ammissioni antisindacali da colonia penale; “…guardi dottore a me del contratto nazionale e del lordo per quattordici mensilità non interessa molto, io ho bisogno di lavorare…”. Una sorta di “La vita agra” senza il boom economico, silenziosa, strisciante e in putrefazione.

Mio sorrisino abbozzato e frase di rito: “bene, per il momento è tutto le faremo sapere”.
Cercavo di scrollarmi di dosso la mia inadeguatezza per il ruolo di Dio e passavo al prossimo.

Non era tutto. Non con Giovanni Lezio. Probabilmente Giovanni (mi permetto il “tu” perché Giovanni mi tiene sotto tiro con una pistola e vicino a lui c’è una bombola del gas), probabilmente non ce l’aveva con me in particolare, io sono la goccia e lui il vaso; Giovanni pretendeva semplicemente una risposta immediata, mi assume o no? Io gli ho spiegato che per tutta la settimana corrente avrei valutato diversi candidati e che tra tutti avrei dovuto sceglierne solo uno. Giovanni si era rotto il cazzo di aspettare. Non è che volesse essere per forza assunto, lui voleva sapere e basta. Io non potevo esaudire questa richiesta e lui è tornato con la pistola e la bombola del gas.
Gentile, mai alzato la voce nelle ultime tre ore, mano ferma (per fortuna) e non fuma (io sì, ma non posso).

Giovanni Lezio nato a Paderno il 29/07/1968 disoccupato sotto sussidio che scade il mese prossimo. Dal 2008 rimbalza da un contratto all’altro fino al 2016, poi la giostra si ferma.

«Dottore io sono stanco, non lavoro, ma mi sento stanco come se tutti i giorni mi facessero scendere in una miniera.»

«Giovanni, perdio basta con ‘sto dottore, sono Geometra. Se devo morire almeno fammi morire con il titolo di studio che mi sono guadagnato.»

Va avanti così il nostro presente attuale, qualche botta e risposta e poi lunghi silenzi. In ufficio non c’è più nessuno, Giovanni è arrivato qualche attimo prima della chiusura, ha aspettato che andassero via tutti e poi ha citofonato dicendo di aver dimenticato il cellulare. Che effettivamente aveva “dimenticato”. Ottima predisposizione al problem solving Giovanni. Tutti quelli disoccupati da più di un anno dovrebbero scrivere questo nei loro CV; “predisposizione al problem solving”, acquisita di diritto, sul campo.

«Senti ma se mi spari o ti fai esplodere pensi di trovare un lavoro?»

«Secondo lei se volevo un lavoro tornavo con la pistola? Bastava entrare in qualche agenzia interinale, aspettare le convocazioni e dire sempre sì, qualcosa trovavo sicuro. Ma le ho detto che sono stanco, quando si è stanchi come lo sono io è brutto; dormi male, non scopi più, continui a pensare ma non ti ricordi più a cosa pensi continuamente perché sei sempre alla ricerca di soluzioni e quelle che ti sembra di trovare si accavallano e devi trovare la soluzione della soluzione, è brutto, non stai bene. Sei da solo.»

Non mi fa paura, ho paura ma non di Giovanni. Comincio a essere stanco anche io, almeno i colloqui sono finiti e non devo più far finta di avere potere e speranza da elargire a fine mese. Giovanni sta facendo quello che ogni tanto sognavo di fare anche io in banca, dai clienti che non pagano, all’agenzia delle entrate, alla burocrazia sorda tutta. Non ho avuto il coraggio o la disperazione. Mi mancava anche la pistola a dirla tutta.
Ma su una cosa Giovanni ha ragione: è solo. Lui lo sa che non conta un cazzo.

«Oh, Giovanni… che inculata eh? Non puoi più nemmeno metterla sul piano padrone/operaio/sfruttamento, i diritti ci sono, stanno scritti, e il lavoro che ci hanno sfilato da sotto il naso, a tutti e due. Smart working, Giovanni.»

«Magari fossi sfruttato, anche con cattiveria, allora la bomba avrebbe un senso, invece sono qui così perché dicono che sono iper-tutelato, che devo formarmi e che ci sono i programmi per il reinserimento, i sussidi e che la flessibilità è un’opportunità. Sono tutti buoni con me, gentili, ma non lavoro. Mi sono stancato, stamattina mi sono svegliato e prima di venire da lei per il colloquio…non lo so… sentivo che non andavo, che forse sono io che non riesco a capire certi meccanismi; non rientro nei profili o non sono predisposto per il lavoro in team. Ma io sono sempre lo stesso di quando lavoravo, ma sembra che sono sempre sbagliato, fuori tempo, fuori opportunità. Sa qual è la cosa più terribile? Mi sento in colpa. In colpa che non trovo lavoro. Piango ogni tanto, mi viene da piangere come i bambini, e alla mia età mi vergogno. Ecco perché volevo sapere subito se mi avrebbe assunto o no, perché non ho più la forza di aspettare ancora, di essere sempre giudicato idoneo o no. Mi sente come parlo? Certi termini ormai mi sono entrati in testa e li sento sempre nelle orecchie, una tortura. Non sono pazzo, anzi sono lucidissimo è questo il problema, rendersi conto di far parte di una riserva, di una razza che è da estinguere, da tenere ai margini. Siamo tanti ma siamo soli. Lei ormai avrà imparato a riconoscerci, scommetto che entriamo dalla porta e lei pensa: ecco un surplus di produzione, uno sconfitto.»

«Sì, proprio così Giovanni, vi riconosco subito ormai. Siete talmente tanti che è impossibile dopo qualche incontro non riconoscervi. Lo ammetto, fate pena. Mi fate venire la nausea. Perché la cosa brutta di fare i colloqui è che io vedo voi, e in voi vedo il futuro di tanti uffici e di tanti come me. Un futuro prossimo finito. Fammi fumare Giovanni.»

Tre ore che non fumavo…


THIS IS THE END