martedì 15 maggio 2018

Fine pena mai


“Era così educato, salutava sempre, non disturbava, sembrava così tanto una brava persona…”

Immagino che i vicini di casa e i conoscenti in generale dell’uomo che mi sta tenendo prigioniero da tre ore nel mio ufficio dichiareranno questo al giornalista di turno.

Oggi, probabilmente il mio ultimo “oggi”, era il terzo giorno di colloqui. Dopo aver inserito un annuncio su un sito dedicato mi sono piovuti addosso centinai di CV, centinaia di vitae che io ho selezionato, scartato, convocato. Non mi rendevo conto che ogni volta che durante il colloquio declamavo l’espressione “tempo indeterminato” infondevo una aspettativa di molto superiore alle possibilità mie e dell’azienda per cui lavoro, un’aspettativa liturgica, una ascensione nel regno degli indeterminati, del fine pena mai.
Dopo i primi colloqui mi sorprendevo ad attendere il mutamento di espressione del candidato al momento di aver recepito che si parlava, eventualmente, di un contratto a tempo indeterminato. Pensavo: adesso sto per dire “indeterminato”, vediamo che faccia fa. Era come inserire un colpo di scena dentro a un racconto, accendere le luci e gridare “buon compleanno” ad una festa a sorpresa. Tutti, devo dirlo, cercavano di mantenere la maschera educato/professionale/ricettivo/disponibile, ma era impossibile, non gli riusciva, anzi, alcuni non ci provavano nemmeno più; probabilmente dopo decine di colloqui in cui il termine temporale del contratto era sempre ben sottolineato (sei mesi, un anno, una sostituzione, determinato con probabilità di rinnovo… ecc… ecc…) non serbavano più alcun pudore.
Io le guardavo queste facce molto verbali, da provino della vita, vedevo gli occhi spalancarsi, l’irrigidirsi delle mascelle, il lieve ma deciso spostamento del peso sulla sedia; leggevo chiaro le parole: “cazzo, sì!”, “non ci posso credere, la prego mi assuma”, “dice davvero? ha detto proprio indeterminato?”. Ed era in quel momento che la diga crollava, che veniva giù tutto e a me saliva la nausea. Spariva, di più, si scioglieva il candidato impettito con la camicia buona e appariva la desolazione dell’uomo solo e disperato. Venivano a galla frasi confidenziali sulla sua vita privata, si scopriva se e quanti figli avesse (che sono da mantenere, sottinteso), due famiglie (alimenti da pagare, sottinteso), che aveva lavorato per quindici anni sempre nella stessa azienda (azienda fallita, sottinteso), perfino ammissioni antisindacali da colonia penale; “…guardi dottore a me del contratto nazionale e del lordo per quattordici mensilità non interessa molto, io ho bisogno di lavorare…”. Una sorta di “La vita agra” senza il boom economico, silenziosa, strisciante e in putrefazione.

Mio sorrisino abbozzato e frase di rito: “bene, per il momento è tutto le faremo sapere”.
Cercavo di scrollarmi di dosso la mia inadeguatezza per il ruolo di Dio e passavo al prossimo.

Non era tutto. Non con Giovanni Lezio. Probabilmente Giovanni (mi permetto il “tu” perché Giovanni mi tiene sotto tiro con una pistola e vicino a lui c’è una bombola del gas), probabilmente non ce l’aveva con me in particolare, io sono la goccia e lui il vaso; Giovanni pretendeva semplicemente una risposta immediata, mi assume o no? Io gli ho spiegato che per tutta la settimana corrente avrei valutato diversi candidati e che tra tutti avrei dovuto sceglierne solo uno. Giovanni si era rotto il cazzo di aspettare. Non è che volesse essere per forza assunto, lui voleva sapere e basta. Io non potevo esaudire questa richiesta e lui è tornato con la pistola e la bombola del gas.
Gentile, mai alzato la voce nelle ultime tre ore, mano ferma (per fortuna) e non fuma (io sì, ma non posso).

Giovanni Lezio nato a Paderno il 29/07/1968 disoccupato sotto sussidio che scade il mese prossimo. Dal 2008 rimbalza da un contratto all’altro fino al 2016, poi la giostra si ferma.

«Dottore io sono stanco, non lavoro, ma mi sento stanco come se tutti i giorni mi facessero scendere in una miniera.»

«Giovanni, perdio basta con ‘sto dottore, sono Geometra. Se devo morire almeno fammi morire con il titolo di studio che mi sono guadagnato.»

Va avanti così il nostro presente attuale, qualche botta e risposta e poi lunghi silenzi. In ufficio non c’è più nessuno, Giovanni è arrivato qualche attimo prima della chiusura, ha aspettato che andassero via tutti e poi ha citofonato dicendo di aver dimenticato il cellulare. Che effettivamente aveva “dimenticato”. Ottima predisposizione al problem solving Giovanni. Tutti quelli disoccupati da più di un anno dovrebbero scrivere questo nei loro CV; “predisposizione al problem solving”, acquisita di diritto, sul campo.

«Senti ma se mi spari o ti fai esplodere pensi di trovare un lavoro?»

«Secondo lei se volevo un lavoro tornavo con la pistola? Bastava entrare in qualche agenzia interinale, aspettare le convocazioni e dire sempre sì, qualcosa trovavo sicuro. Ma le ho detto che sono stanco, quando si è stanchi come lo sono io è brutto; dormi male, non scopi più, continui a pensare ma non ti ricordi più a cosa pensi continuamente perché sei sempre alla ricerca di soluzioni e quelle che ti sembra di trovare si accavallano e devi trovare la soluzione della soluzione, è brutto, non stai bene. Sei da solo.»

Non mi fa paura, ho paura ma non di Giovanni. Comincio a essere stanco anche io, almeno i colloqui sono finiti e non devo più far finta di avere potere e speranza da elargire a fine mese. Giovanni sta facendo quello che ogni tanto sognavo di fare anche io in banca, dai clienti che non pagano, all’agenzia delle entrate, alla burocrazia sorda tutta. Non ho avuto il coraggio o la disperazione. Mi mancava anche la pistola a dirla tutta.
Ma su una cosa Giovanni ha ragione: è solo. Lui lo sa che non conta un cazzo.

«Oh, Giovanni… che inculata eh? Non puoi più nemmeno metterla sul piano padrone/operaio/sfruttamento, i diritti ci sono, stanno scritti, e il lavoro che ci hanno sfilato da sotto il naso, a tutti e due. Smart working, Giovanni.»

«Magari fossi sfruttato, anche con cattiveria, allora la bomba avrebbe un senso, invece sono qui così perché dicono che sono iper-tutelato, che devo formarmi e che ci sono i programmi per il reinserimento, i sussidi e che la flessibilità è un’opportunità. Sono tutti buoni con me, gentili, ma non lavoro. Mi sono stancato, stamattina mi sono svegliato e prima di venire da lei per il colloquio…non lo so… sentivo che non andavo, che forse sono io che non riesco a capire certi meccanismi; non rientro nei profili o non sono predisposto per il lavoro in team. Ma io sono sempre lo stesso di quando lavoravo, ma sembra che sono sempre sbagliato, fuori tempo, fuori opportunità. Sa qual è la cosa più terribile? Mi sento in colpa. In colpa che non trovo lavoro. Piango ogni tanto, mi viene da piangere come i bambini, e alla mia età mi vergogno. Ecco perché volevo sapere subito se mi avrebbe assunto o no, perché non ho più la forza di aspettare ancora, di essere sempre giudicato idoneo o no. Mi sente come parlo? Certi termini ormai mi sono entrati in testa e li sento sempre nelle orecchie, una tortura. Non sono pazzo, anzi sono lucidissimo è questo il problema, rendersi conto di far parte di una riserva, di una razza che è da estinguere, da tenere ai margini. Siamo tanti ma siamo soli. Lei ormai avrà imparato a riconoscerci, scommetto che entriamo dalla porta e lei pensa: ecco un surplus di produzione, uno sconfitto.»

«Sì, proprio così Giovanni, vi riconosco subito ormai. Siete talmente tanti che è impossibile dopo qualche incontro non riconoscervi. Lo ammetto, fate pena. Mi fate venire la nausea. Perché la cosa brutta di fare i colloqui è che io vedo voi, e in voi vedo il futuro di tanti uffici e di tanti come me. Un futuro prossimo finito. Fammi fumare Giovanni.»

Tre ore che non fumavo…


THIS IS THE END


giovedì 3 maggio 2018

l'elegante Luchino

Tra la pesca di "Chiamami col tuo nome", e il burro di "Ultimo tango a Parigi".
La tinta per capelli che cola di "Morte a Venezia" vincerà sempre.