“Era
così educato, salutava sempre, non disturbava, sembrava così tanto una brava
persona…”
Immagino
che i vicini di casa e i conoscenti in generale dell’uomo che mi sta tenendo
prigioniero da tre ore nel mio ufficio dichiareranno questo al giornalista di
turno.
Oggi,
probabilmente il mio ultimo “oggi”, era il terzo giorno di colloqui. Dopo aver
inserito un annuncio su un sito dedicato mi sono piovuti addosso centinai di CV,
centinaia di vitae che io ho selezionato, scartato, convocato. Non mi rendevo
conto che ogni volta che durante il colloquio declamavo l’espressione “tempo indeterminato”
infondevo una aspettativa di molto superiore alle possibilità mie e dell’azienda
per cui lavoro, un’aspettativa liturgica, una ascensione nel regno degli
indeterminati, del fine pena mai.
Dopo
i primi colloqui mi sorprendevo ad attendere il mutamento di espressione del
candidato al momento di aver recepito che si parlava, eventualmente, di un
contratto a tempo indeterminato. Pensavo: adesso sto per dire “indeterminato”,
vediamo che faccia fa. Era come inserire un colpo di scena dentro a un
racconto, accendere le luci e gridare “buon compleanno” ad una festa a
sorpresa. Tutti, devo dirlo, cercavano di mantenere la maschera
educato/professionale/ricettivo/disponibile, ma era impossibile, non gli
riusciva, anzi, alcuni non ci provavano nemmeno più; probabilmente dopo decine
di colloqui in cui il termine temporale del contratto era sempre ben
sottolineato (sei mesi, un anno, una sostituzione, determinato con probabilità
di rinnovo… ecc… ecc…) non serbavano più alcun pudore.
Io
le guardavo queste facce molto verbali, da provino della vita, vedevo gli occhi
spalancarsi, l’irrigidirsi delle mascelle, il lieve ma deciso spostamento del peso
sulla sedia; leggevo chiaro le parole: “cazzo, sì!”, “non ci posso credere, la
prego mi assuma”, “dice davvero? ha detto proprio indeterminato?”. Ed era in
quel momento che la diga crollava, che veniva giù tutto e a me saliva la
nausea. Spariva, di più, si scioglieva il candidato impettito con la camicia
buona e appariva la desolazione dell’uomo solo e disperato. Venivano a galla
frasi confidenziali sulla sua vita privata, si scopriva se e quanti figli
avesse (che sono da mantenere, sottinteso), due famiglie (alimenti da pagare, sottinteso),
che aveva lavorato per quindici anni sempre nella stessa azienda (azienda
fallita, sottinteso), perfino ammissioni antisindacali da colonia penale; “…guardi
dottore a me del contratto nazionale e del lordo per quattordici mensilità non
interessa molto, io ho bisogno di lavorare…”. Una sorta di “La vita agra” senza
il boom economico, silenziosa, strisciante e in putrefazione.
Mio
sorrisino abbozzato e frase di rito: “bene, per il momento è tutto le faremo
sapere”.
Cercavo
di scrollarmi di dosso la mia inadeguatezza per il ruolo di Dio e passavo al
prossimo.
Non
era tutto. Non con Giovanni Lezio. Probabilmente Giovanni (mi permetto il “tu” perché
Giovanni mi tiene sotto tiro con una pistola e vicino a lui c’è una bombola del
gas), probabilmente non ce l’aveva con me in particolare, io sono la goccia e
lui il vaso; Giovanni pretendeva semplicemente una risposta immediata, mi
assume o no? Io gli ho spiegato che per tutta la settimana corrente avrei
valutato diversi candidati e che tra tutti avrei dovuto sceglierne solo uno.
Giovanni si era rotto il cazzo di aspettare. Non è che volesse essere per forza
assunto, lui voleva sapere e basta. Io non potevo esaudire questa richiesta e
lui è tornato con la pistola e la bombola del gas.
Gentile,
mai alzato la voce nelle ultime tre ore, mano ferma (per fortuna) e non fuma
(io sì, ma non posso).
Giovanni
Lezio nato a Paderno il 29/07/1968 disoccupato sotto sussidio che scade il mese
prossimo. Dal 2008 rimbalza da un contratto all’altro fino al 2016, poi la giostra
si ferma.
«Dottore
io sono stanco, non lavoro, ma mi sento stanco come se tutti i giorni mi facessero
scendere in una miniera.»
«Giovanni,
perdio basta con ‘sto dottore, sono Geometra. Se devo morire almeno fammi morire
con il titolo di studio che mi sono guadagnato.»
Va
avanti così il nostro presente attuale, qualche botta e risposta e poi lunghi
silenzi. In ufficio non c’è più nessuno, Giovanni è arrivato qualche attimo
prima della chiusura, ha aspettato che andassero via tutti e poi ha citofonato
dicendo di aver dimenticato il cellulare. Che effettivamente aveva “dimenticato”.
Ottima predisposizione al problem solving Giovanni. Tutti quelli disoccupati da
più di un anno dovrebbero scrivere questo nei loro CV; “predisposizione al
problem solving”, acquisita di diritto, sul campo.
«Senti
ma se mi spari o ti fai esplodere pensi di trovare un lavoro?»
«Secondo
lei se volevo un lavoro tornavo con la pistola? Bastava entrare in qualche
agenzia interinale, aspettare le convocazioni e dire sempre sì, qualcosa trovavo
sicuro. Ma le ho detto che sono stanco, quando si è stanchi come lo sono io è
brutto; dormi male, non scopi più, continui a pensare ma non ti ricordi più a
cosa pensi continuamente perché sei sempre alla ricerca di soluzioni e quelle
che ti sembra di trovare si accavallano e devi trovare la soluzione della
soluzione, è brutto, non stai bene. Sei da solo.»
Non
mi fa paura, ho paura ma non di Giovanni. Comincio a essere stanco anche io,
almeno i colloqui sono finiti e non devo più far finta di avere potere e
speranza da elargire a fine mese. Giovanni sta facendo quello che ogni tanto
sognavo di fare anche io in banca, dai clienti che non pagano, all’agenzia
delle entrate, alla burocrazia sorda tutta. Non ho avuto il coraggio o la disperazione.
Mi mancava anche la pistola a dirla tutta.
Ma
su una cosa Giovanni ha ragione: è solo. Lui lo sa che non conta un cazzo.
«Oh,
Giovanni… che inculata eh? Non puoi più nemmeno metterla sul piano
padrone/operaio/sfruttamento, i diritti ci sono, stanno scritti, e il lavoro
che ci hanno sfilato da sotto il naso, a tutti e due. Smart working, Giovanni.»
«Magari
fossi sfruttato, anche con cattiveria, allora la bomba avrebbe un senso, invece
sono qui così perché dicono che sono iper-tutelato, che devo formarmi e che ci
sono i programmi per il reinserimento, i sussidi e che la flessibilità è un’opportunità.
Sono tutti buoni con me, gentili, ma non lavoro. Mi sono stancato, stamattina
mi sono svegliato e prima di venire da lei per il colloquio…non lo so… sentivo
che non andavo, che forse sono io che non riesco a capire certi meccanismi; non
rientro nei profili o non sono predisposto per il lavoro in team. Ma io sono
sempre lo stesso di quando lavoravo, ma sembra che sono sempre sbagliato, fuori
tempo, fuori opportunità. Sa qual è la cosa più terribile? Mi sento in colpa.
In colpa che non trovo lavoro. Piango ogni tanto, mi viene da piangere come i
bambini, e alla mia età mi vergogno. Ecco perché volevo sapere subito se mi
avrebbe assunto o no, perché non ho più la forza di aspettare ancora, di essere
sempre giudicato idoneo o no. Mi sente come parlo? Certi termini ormai mi sono
entrati in testa e li sento sempre nelle orecchie, una tortura. Non sono pazzo,
anzi sono lucidissimo è questo il problema, rendersi conto di far parte di una
riserva, di una razza che è da estinguere, da tenere ai margini. Siamo tanti ma
siamo soli. Lei ormai avrà imparato a riconoscerci, scommetto che entriamo
dalla porta e lei pensa: ecco un surplus di produzione, uno sconfitto.»
«Sì,
proprio così Giovanni, vi riconosco subito ormai. Siete talmente tanti che è impossibile
dopo qualche incontro non riconoscervi. Lo ammetto, fate pena. Mi fate venire
la nausea. Perché la cosa brutta di fare i colloqui è che io vedo voi, e in voi
vedo il futuro di tanti uffici e di tanti come me. Un futuro prossimo finito.
Fammi fumare Giovanni.»
Tre
ore che non fumavo…
THIS IS THE END