lunedì 29 febbraio 2016

LEO

Grazie.
Davvero. Grazie.
Quando Johnny mi prendeva per il culo perché diceva che mi mettevo le dita nel naso, io non riuscivo ad arrabbiarmi. In fondo era lui quello più grande e più bello, io ero ancora un ragazzino che guardava Juliette senza capire cosa avesse di particolare quella pazza tutta ossa e con un taglio di capelli da maschiaccio.
Mi ricordo che chiesi a mia madre perché mi pettinasse sempre con quel ciuffo lungo sei metri. Lei mi rispose che era perché il parrucchiere costa.
La vita era dura, cercavo di scrivere poesie ma nessuno voleva leggerle, un giorno vinsi il biglietto di un traghetto giocando a scopone. Facevo coppia con James Cameron, il meccanico che aveva una rimessa di barche giù al molo.
“Non andare Leo, non farlo. Non partire con James quello è matto, non lo vedi che occhi da pazzo che ha?” Questo continuava a ripetermi mia madre.
Io però su quella nave ci volevo salire, cosa mai sarebbe potuto accadere? Era la nave più grossa che avessi mai visto, la più grossa e la più bella.
Grazie.
Davvero. Grazie.
Sulla nave ho incontrato Rose, quanto era bella. Mi ha fatto dimenticare il mio primo grande amore Giulietta. Che era bella pure lei, ma eravamo troppo diversi. È stato un viaggio fantastico, uno di quei viaggi che ti cambiano la vita. Mi ricorderò sempre la sera in cui io e Rose ci siamo ubriacati e abbiamo ballato fino all’alba con un’orchestra che suonava solo per noi. Purtroppo dopo quella sera io sono naufragato su una spiaggia della Thailandia, e Rose credo sia arrivata in Australia galleggiando sopra un’asse di legno. Non ci siamo mai più rivisti.
Grazie.
Davvero. Grazie.
Ormai ero grandicello, e dovendo decidere cosa fare della mia vita scrissi a un vecchio zio che si era trasferito a New York diversi anni prima. Lo zio Martin.
Detto fatto, mi ritrovai a vivere con lui. Era forte lo zio Martin, mi prese subito in simpatia e m’insegnò un sacco di cose: fare a botte, usare il coltello, sparare e tante altre. Riuscì anche a farmi entrare in polizia, un’esperienza formativa che mi ha segnato profondamente, dopo alcuni anni non reggevo più lo stress e ho cominciato ad avere incubi e allucinazioni, zio Martin mi ha fatto rinchiudere in una specie di casa di cura per matti, un posto chic che stava su un’isola. Quando finalmente mi hanno fatto uscire ero senza un lavoro e pieno di debiti, sarà stato per questo che ho preso una brutta strada e mi sono infilato nel giro delle truffe e degli assegni falsi.
Fatto sta che sono dovuto entrare in terapia, mi sono affidato alle cure di un bravo psicologo, il Dott. Nolan. Dopo qualche seduta il dottore mi ha convinto che non c’era nulla di sbagliato in me e mi ha addirittura proposto di diventare suo partner in una società che usava delle tecniche innovative per rubare i segreti nella testa delle persone, all’inizio ho pensato che fosse Nolan quello che doveva andare dallo psicologo ma poi la società ha cominciato a funzionare e abbiamo fatto un sacco di soldi insieme.
Grazie.
Davvero. Grazie.
Ho comprato una bella casa nel sud con una grossa piantagione di cotone, l’idea della piantagione è stata di Quentin, un mio amico d’infanzia che lavorava nella videoteca sotto casa, io volevo bene a Quentin ma ho sbagliato a dargli retta sul business del cotone, troppi rischi. Infatti dopo un po’ ci hanno fatto chiudere, anche se secondo me Quentin ha fiuto per un certo genere di affari. Adesso gestisce una baita di montagna su al nord.
Dopo il fallimento con il cotone sono dovuto ripartire da zero un’altra volta, mi sono nuovamente trasferito da zio Martin a New York, lo zio nel frattempo si era fatto un nome nel mercato azionario, io l’ho seguito a capofitto. Che anni: soldi, donne, party… pareva non dovesse finire mai, davo certe feste che ad un certo punto mi soprannominarono “Il grande Leo”. Dopo un po’ capii che lo zio aveva esagerato con certi trucchetti e dovetti mollare il colpo un’altra volta.
Ed eccomi qui, oggi, a quarantadue anni. Finalmente ho trovato la mia dimensione, faccio la guida turistica nei parchi nazionali, accompagno le comitive in giro per il parco. Quando sono fortunato riesco anche a fargli vedere un orso, da lontano chiaramente.
D’inverno, quando il lavoro cala, faccio delle grosse escursioni solitarie in mezzo ai boschi. Conosco un posto bellissimo da cui si vede tutta la vallata, quando arrivo lì mi siedo e aspetto che il sole tramonti, poi accendo un fuoco e mi cucino un pesce che ho pescato con le mie mani. In quel momento ripenso a tutte le persone grandiose che ho incontrato in vita mia, a tutti i personaggi strani che mi hanno accompagnato, a mio zio Martin, che nonostante tutto è stato l’uomo che mi ha insegnato di più e a cui devo molto. Quando proprio mi assale un po’ di malinconia tiro fuori un vecchio disegno che ho fatto a Rose, poi chiamo il mio cane: “Oscar, vieni qui.” , e insieme restiamo a fissare il cielo fino a quando non ci addormentiamo.


mercoledì 24 febbraio 2016

LAUREN #7

JACK-giocatore
Di te si scriverà che sei morto appeso per i piedi come un verme infilzato sull’amo.
Sei senza pietà Jack.
Hai negato il tuo peccato.
Sei un giocatore.
Il tuo peccato ha distrutto le tue risorse, umiliato la tua famiglia, hai ingannato e spergiurato che non sarebbe accaduto di nuovo.
Hai meritato la morte perché hai giurato il falso.
Escano dalle tue viscere la forza di volontà e la saggezza di riconoscere che un cambiamento è possibile .

Lettera rinvenuta nella gola di Jack Strimberg – anni 64

Causa della morte: soffocamento

lunedì 22 febbraio 2016

La stanza di Carol

Le persiane della finestra della camera di Carol sono state chiuse per tutta la mattina.
Chon ha fatto colazione in giardino, la solita colazione: tè, marmellata di fragole su una fetta di pane tostato, senza burro, e una spremuta.
Dal tavolo della colazione, a intervalli regolari, alzava lo sguardo a controllare la finestra.
Stare da solo in casa non gli piaceva, voleva stare da solo con Carol in giro, gli mancava quel valzer di spostamenti tra una stanza e l’altra, quell’incrociarsi nei corridoi e accarezzarsi con un “buongiorno” educato e formale che era il loro codice per dire: sono qui anche oggi.
All’ora di pranzo è arrivato un uomo che non aveva mai visto prima. L’uomo era senza dubbio un medico, aveva la valigetta da medico, e la governante oltre a chiamarlo dottore l’ha scortato per le scale fino alla stanza di Carol. Il medico si è fermato per quasi un’ora.
Carol non è scesa nemmeno per la cena.
Chon è passato davanti alla porta della sua camera circa una decina di volte, e almeno in sette occasioni ha dovuto trattenersi dal bussare.
Ha passato il resto della serata seduto sulla poltrona rossa di Carol senza fare nulla a parte fumare sigarette.
In questo stato di catatonia indotto la sua mente ha vagato sul significato fisico della parola assenza, senza approdare a nessuna teoria abbastanza illuminata e rivoluzionaria capace di far lievitare il suo umore.

La lista delle cose non dette a Carol era diventata una lunga preghiera di sensi di colpa con il ticchettio del tempo che scorre a fare da controcanto.

venerdì 19 febbraio 2016

Italia VS non ricordo

Giocava l’Italia, quella di calcio, insomma la nazionale. Io ero a casa mia, nostra, c’era anche mio fratello. La casa quella grande, con un bel giardino, la casa che per molti anni è sempre stata piena di gente, di amici che andavano e arrivavano senza sosta e senza senso, quando volevano e quando gli pareva. C’è stato un periodo così.
Poi diventi più grande e le stanze diventano più piccole, e la polvere copre le selle delle biciclette.
Mi ricordo una calma irreale mentre ascoltavo la telefonata, una specie di sospensione della realtà, che poi negli anni avrei imparato a riconoscere come shock.
Anche mentre aspettavo mia madre che tornasse dal cinema, e sapevo che appena l’avrei vista entrare dalla porta avrei dovuto dirle quello che dovevo dirle, anche nell’attesa in cui mi scrivevo in testa il discorso migliore, le parole più adatte, ero calmo.
“Hanno ricoverato papà a Genova, ma sta bene…”, cioè, in verità dalla telefonata non avevo capito benissimo cos’era successo, era un dottore, mi ha dato l’indirizzo dell’ospedale e mi ha detto di arrivare appena possibile.
Quando mia mamma finalmente è entrata, la cosa che proprio non ricordavo è che film era andata a vedere, non gliel'ho mai più chiesto. Ogni tanto mi ritorna questa curiosità: che film eri andata a vedere?
«Siediti un attimo.»
In casa c’è un divano che io ho sempre pensato fosse di bellezza, un divano carino a due posti appena dopo l’ingresso, non ci si siede mai nessuno, è un divano di servizio. Mia mamma su quel divano non si era mai seduta, per una serie di motivi che sono un’altra storia che non sto qui a raccontarvi adesso.
«Papà è a Genova, ricoverato, ma non è grave.», non un gran discorso. Ho poi scoperto che “non è grave” è un mantra che dicono tutti, quando non sanno come dirti una cosa. Nascosta sotto varie forme ed espressioni, la chiusa di una notizia di merda che qualcuno ti deve dare è sempre un “non è grave” camuffato male.
Ho guidato di notte fino a Genova, ho portato tutti sani e salvi fino all’ospedale. 
Era la prima volta che vedevo Genova, negli anni poi ci sono tornato diverse volte: per lavoro, amici, e anche per un matrimonio.
Mi piace Genova, è oggettivamente brutta ma per me è una città affascinante.   

lunedì 15 febbraio 2016

LA PASSEGGIATA (Chon)

C’è una scalinata che cade verso il paese, tutta curve e gradoni di pietra che sono stonati come un pianoforte dimenticato in cantina; gradoni tutti storti e tutti diversi con sassi che sbucano a caso dal terreno, questa via si butta giù con coraggio e ignoranza fino alla piazzetta che si apre sul mare. 
Se si attraversa la piazza si arriva sul ciglio della strada che in questo punto fa una curva disegnata con il compasso, la curva segue la piccola striscia di sabbia che è l’unica spiaggia del borgo, poi sono tutti massi che si trattengono a vicenda per non rovinare in acqua.
Sulla sabbia, dando le spalle al mare, basta alzare la testa e si vede la casa e il grande ulivo che fa da pennone.
Chon, la scalinata aveva cominciato a percorrerla da solo. Ogni tanto, dopo cena, scendeva da solo in mezzo al silenzio e all’odore che hanno i posti di mare d’inverno: un misto di muffa e di sapone sciacquato a mano. 
Aveva provato ad invitare Carol in queste passeggiate serali, la risposta era sempre stata la seguente: "Magari un’altra volta, grazie". 

venerdì 12 febbraio 2016

LAUREN #6

MARA-ladra
Di te si scriverà che sei morta appesa per i piedi come una croce capovolta.
Sei senza pietà Mara.
Hai negato il tuo peccato.
Sei una ladra.
Il tuo peccato è il possesso come fine, occultare e appropriarsi senza chiedere, afferrare ciò che non ti appartiene, accumulare beni per il piacere di sottrarre all'altro.
Hai meritato la morte perché hai giurato il falso.
Escano dalle tue viscere la condivisione e il piacere di donare, quel dare che hai solo finto.

Lettera rinvenuta nella gola di Mara Sánchez – anni 33
Causa della morte: soffocamento

lunedì 8 febbraio 2016

CAROL E LA SUA POESIA

Chon è seduto per terra con le gambe incrociate, seduto sul tappeto rosso davanti a Carol.
«Tocca a lei.»
«Cosa vuole sapere?»
«Quello che vuole, mi dica qualcosa che non so.»
«Non mi piace leggere poesie.»
«A nessuno non piace leggere poesie.»
«A me non piace.»
«Qualcosa di più personale, non si nasconda dietro la poesia.»
«E va bene, confesso, una poesia mi piace.»
«Me la dica, voglio sentirla, se le piace la saprà a memoria.»
«Non ci penso proprio a dire a lei la mia poesia.»
«Non è la sua, è di tutti. Mi dica almeno il titolo.»
«No. La poesia, la mia poesia, è lì che aspetta qualcuno. Qualcuno che non è ancora arrivato, qualcuno che è in ritardo, questo qualcuno un giorno arriverà e sentirà la poesia, e quando l’avrà sentita, senza aver bisogno di altre spiegazioni saprà che è arrivato dove doveva arrivare, cioè davanti a me. Le parole non invecchiano, possono stare anni chiuse al buio ad aspettare.»
«E se non arriva nessuno?»

«Non so risponderle. La certezza è che la poesia c’è, a questo deve credere.»

venerdì 5 febbraio 2016

LAUREN #5

CATE-malvagia
Di te si scriverà che sei morta appesa per i piedi come un pipistrello giustiziato nel sonno.
Sei senza pietà Cate.
Hai negato il tuo peccato.
Sei malvagia.
Il tuo peccato è la deliberata provocazione della sofferenza altrui, sofferenza che hai provocato per viltà, conducendo la tua esistenza in modo pavido ed egoista.
Hai meritato la morte perché hai giurato il falso.
Escano dalle tue viscere i sorrisi che hai negato e gli abbracci che hai tradito.

Lettera rinvenuta nella gola di Cate Gilmore – anni 33
Causa della morte: soffocamento

lunedì 1 febbraio 2016

Carol e Chon

Poteva capitare che Chon e Carol si trovassero la sera alla stessa ora nel salone. Non c’era nessun appuntamento, la loro, così come era stato messo nero su bianco, era una semplice convivenza regolata da un contratto di locazione. Entrambi avevano diritto ad accedere a tutti gli spazi della casa e del giardino, compreso il diritto di usufruire della spiaggia privata. Le uniche restrizioni erano rivolte alle camere da letto e ai bagni personali, nessuno dei due poteva entrare negli ambienti dell’altro.
Carol occupava sempre la stessa poltrona, Chon non aveva mai provato ad accomodarsi su quella poltrona rossa, nemmeno quando si trovava da solo nel salone.
Passavano sere in completo silenzio, ignorandosi a pochi metri di distanza.
Carol spesso si addormentava sulla poltrona con un libro aperto sulle gambe. Chon prima di andarsene dal salone chiudeva il libro e infilava tra le pagine qualcosa che potesse fare da segnalibro, l’ultima volta aveva usato un cucchiaino del caffè. Nessuno dei due parlava mai di questo gesto.

Questa sera erano di nuovo entrambi nel salone. Avevano già cenato, ognuno per conto suo: Carol in cucina, Chon in biblioteca.
Carol non stava leggendo, guardava fuori attraverso la vetrata. Il grande ulivo resisteva con apparente leggerezza al vento forte che portava grosse nuvole verso la costa.
Chon era seduto al lungo tavolo di noce, davanti a sé aveva steso delle vecchie carte nautiche e prendeva appunti su ipotetiche rotte da seguire per nuovi e irrealizzabili viaggi in barca. A intervalli regolari alzava il viso e lanciava uno sguardo verso la sua padrona di casa, da qualche giorno aveva la sensazione che Carol avesse perso peso, che fosse diventata più silenziosa del solito, per un istinto che non credeva di possedere, Chon aveva smesso di provocarla, come amava fare, con battute sulla casa e sulla loro convivenza.
«È soddisfatto della sua permanenza in questa casa?», la domanda arrivò all’improvviso sulle carte nautiche e su Chon.
Carol si era seduta di traverso sulla poltrona: le gambe erano a penzoloni appoggiate sul bracciolo, teneva le mani strette tra le ginocchia, il busto sbilanciato in avanti e il viso inclinato.
«Molto soddisfatto, lo considero un buon investimento.», Chon aveva risposto spingendo da un lato le carte nautiche e chiudendo il quaderno su cui stava prendendo appunti. Aveva girato la sedia appoggiandosi comodamente allo schienale.
«Vive in casa mia da un mese e di lei non so praticamente nulla, se escludo la sua dedizione all’egocentrismo a cui si dedica con ostinata abnegazione.»
«È un modo gentile e forbito per dire che sono un egoista?»
«All’apparenza. Ma può sempre smentirmi, qual è la sua storia?»
Chon si raddrizzò sulla sedia e appoggiò le mani sulle ginocchia, «Lei vuole avere sempre l’ultima parola, vero?»
«Detto da lei lo considero un complimento. Ha qualcosa da dirmi o vuole continuare a nascondersi dietro a frasi fatte?»
«Cosa vorrebbe sentire? Un racconto strappalacrime sulla mia infanzia?»
Carol si rigirò a guardare fuori dalla finestra, «Come vuole, parlare con lei è noioso se si superano le due battute a testa. Tra i due è lei che vuole l’ultima parola, a me non interessa, l’ultima parola è una vittoria inutile, perché il nemico di cui cerchiamo il corpo è scomparso.»
«Mi piacevano i fumetti. Da piccolo leggevo un sacco di fumetti, poi ho smesso. Non l’ho deciso, non mi ricordo nemmeno il momento in cui ho letto l’ultimo fumetto. La stessa cosa è successa con le poesie, ho smesso di leggerle. Le scrivevo anche, una volta, poi più nulla. Black out. Ho smesso di scriverle, è successo come con i fumetti,  non c’è stato un distacco doloroso, sono scomparse. Non le cerco più, e loro non vengono a cercare me. Buffo come smettiamo di fare cose che ci piacciono senza che nessuno ce lo imponga. Credo che secondo il suo ragionamento la poesia abbia avuto l’ultima parola. Sono scomparso.»