Mi chiamo Levio. Questo non è il mio vero nome, è
il nome che mi sono scelto quando ho deciso di abbandonarmi e di donarmi al
solo me stesso.
Posso
dirvi che vivo a Milano, mi annoia parlar di me, di contro è l’unico che
conosco e con cui mi piace passare del tempo, in quanto ho deciso di rifiutare
quel che si pensa essere la vocazione umana: condividere e socializzare,
riprodursi e solidariamente accostarsi al prossimo.
La
mattina mi piace andare con calma, da tempo ho perso l’affanno per la sveglia e
il rincorrere gli stessi gesti per arrivare puntuale da qualche parte. Non è
più affar mio rendermi presentabile a tutti i costi per un reddito a fine mese.
Ho smesso.
Vado
piano verso il bagno, dove mi piace guardare allo specchio il mio viso che non
fa domande ancora sporco dalla nottata. Non farmi e farne, di domande, è
diventato fondamentale per protrarre in modo proficuo la scelta di non essere
più.
Porto
la barba per pigrizia, perché mi cresce lentamente e perché non ho tempo e
vanità di tagliarla. Sarebbe meglio dire che ho tolto dal mio tempo quello
speso per radermi, tempo sprecato a mio modo di vedere.
Nella
stanza da bagno comincia la mia giornata che è il ciclo perpetuo e continuo, la
vite senza fine di me. Osservo dalla finestra la via sottostante, sempre
uguale, sempre la stessa porzione di asfalto nero sui cui posso buttare un
veloce sguardo. Poi il palazzo di fronte, in particolare l’appartamento con il
balcone ingombro di casse e scatole e sacchi di cellophane, tutta merce
arruffata di una famiglia di cui vedo solo la madre; una figura esile che porta
calze di nylon nere anche d’estate. Ritualmente porto lo sguardo sempre verso
quelle finestre al di là della mia perché una volta la vidi; la secca in calze
nere di cui vi ho descritto sopra, la vidi a petto nudo con un seno avvizzito e
sgonfio di piccole dimensioni che poggiava sulle sue costole. Si prende quel
che il caso ci dona. La rivedrò a petto nudo prima o poi, ne sono convinto,
attendo con piacere che lei ripeta il suo inconsapevole mostrarsi.
Bastando
a me stesso non ho programmi giornalieri, se non quello di rispettare con
impegno la ricerca dei mezzi per mantenere il mio stato di invisibile il più a
lungo e il più credibilmente possibile.
Il
miglior modo per passare il tempo quando se ne ha troppo e non si ha più il
senso di colpa di doverlo impiegare a servizio, è il modo di camminare. Antica
arte del coltivare il moto perpetuo che il nostro corpo evoluto ci dona senza
richiederci indietro nulla o poco più.
Le
mie giornate sono dunque scandite da passi, che mi piace chiamare “intervalli”,
e da una salvifica sensazione di noia. La ricerca della condizione della noia è
il mio fine ultimo, solo i privilegiati possono annoiarsi in modo gratificante.
Possedere noia è possedere tempo, non è una condizione facile da creare e da
ritrovare giorno per giorno.
Utilizzare
sempre lo stesso itinerario per la passeggiata mattutina può essere un buon
metodo per immergersi nella noia. Io lo faccio sempre, è il punto di partenza.
Sarebbe pericolosissimo farsi traviare da qualsiasi stimolo che sposti il
quotidiano ripercorrere le stesse strade. Questo modo di porsi di fronte alla
giornata ha diversi vantaggi: non serve pensare e prendere decisioni, il passo
va da solo verso la sua destinazione, che è circolare, il tempo è libero di
plasmarsi sul mio corpo come più gli aggrada. Non c’è ossessione in questo mio
vagare ipnotico. Non cerco il tempo per coordinarmi con un semaforo o per
arrivare all’angolo sempre alla stessa ora, che orrore, che errore sarebbe
voler interferire, programmare e programmarsi pensando in questo modo di
crearsi la rassicurante corazza del tempo-spazio piegato all’individuo. Io è
proprio da questo che fuggo con tutte le mie forze e le mie risorse.
Continuo
a camminare, è camminando che mi alleggerisco di tutto. Ogni giorno devo
togliere e ritogliere, perché voi siete testardi e non mollate. Voi volete
sapere, volete credere, volete dire, volete sempre qualcuno che sia lì, per
voi.
A
prima vista, quando qualcuno mi vede, e questa è già una notizia, potrebbe
scambiarmi per un uomo stanco e pallido. Io è quello che spero, spero di essere
scambiato.
La
verità è che la gente mi annoia a morte.
Una
noia che non è la sensazione di libertà assoluta di cui parlavo prima, questa è
una noia che vuole interazione, che pretende attenzione, vuole essere coccolata
la vostra noia che cercate con una generosità da preti di campagna di elargirmi
nei vostri infantili ed educati approcci da esseri umani. Non m’interessa,
grazie. Non dovete sentirvi in obbligo di cercare una vittima che dia una scossa
alla vostra routine, io sto bene con me stesso, io voglio stare in pace. La
pace non è quella misera e fuorviante menzogna che vi iniettano da quando siete
nati. Non è stare in pace essere circondati da persone e cercare di trovare il
modo di salvare gli ultimi e di non lasciare indietro nessuno, cercare la
serenità tra le genti. Vi rendete conto che è una cosa abominevole e da
ammalati mentali?
Tutto
quello che succede vi dovrebbe far capire che il fine ultimo è isolarvi
facendovi credere di essere parte di una società. Se non capite questo siete
già morti.
Quando
siamo certi di aver fortificato e pianificato la nostra routine, l’esterno
irrompe su di noi in modo inevitabile, sempre. Sotto casa hanno aperto un
enorme cantiere, uno scavo che sarà attivo per più di cinque anni. Questo mi ha
costretto a modificare il percorso della mia passeggiata, oltre al cantiere è
stato aperto un nuovo supermercato, nuovi scenari dunque mi assediano da
diverse angolazioni; il cantiere isola e divide, il supermercato attira umani
concentrandoli in piccoli gruppi in attesa alle casse. Ho scoperto che il
supermercato si fregia del titolo di “biologico”, un’assoluzione al senso di
colpa che tutti voi portate verso il vostro vizio di procacciarvi il cibo in
modo seriale.