martedì 8 novembre 2016

LEVIO - beta test#1


Mi chiamo Levio. Questo non è il mio vero nome, è il nome che mi sono scelto quando ho deciso di abbandonarmi e di donarmi al solo me stesso.
Posso dirvi che vivo a Milano, mi annoia parlar di me, di contro è l’unico che conosco e con cui mi piace passare del tempo, in quanto ho deciso di rifiutare quel che si pensa essere la vocazione umana: condividere e socializzare, riprodursi e solidariamente accostarsi al prossimo.

     La mattina mi piace andare con calma, da tempo ho perso l’affanno per la sveglia e il rincorrere gli stessi gesti per arrivare puntuale da qualche parte. Non è più affar mio rendermi presentabile a tutti i costi per un reddito a fine mese. Ho smesso. 

    Vado piano verso il bagno, dove mi piace guardare allo specchio il mio viso che non fa domande ancora sporco dalla nottata. Non farmi e farne, di domande, è diventato fondamentale per protrarre in modo proficuo la scelta di non essere più. 

    Porto la barba per pigrizia, perché mi cresce lentamente e perché non ho tempo e vanità di tagliarla. Sarebbe meglio dire che ho tolto dal mio tempo quello speso per radermi, tempo sprecato a mio modo di vedere.
Nella stanza da bagno comincia la mia giornata che è il ciclo perpetuo e continuo, la vite senza fine di me. Osservo dalla finestra la via sottostante, sempre uguale, sempre la stessa porzione di asfalto nero sui cui posso buttare un veloce sguardo. Poi il palazzo di fronte, in particolare l’appartamento con il balcone ingombro di casse e scatole e sacchi di cellophane, tutta merce arruffata di una famiglia di cui vedo solo la madre; una figura esile che porta calze di nylon nere anche d’estate. Ritualmente porto lo sguardo sempre verso quelle finestre al di là della mia perché una volta la vidi; la secca in calze nere di cui vi ho descritto sopra, la vidi a petto nudo con un seno avvizzito e sgonfio di piccole dimensioni che poggiava sulle sue costole. Si prende quel che il caso ci dona. La rivedrò a petto nudo prima o poi, ne sono convinto, attendo con piacere che lei ripeta il suo inconsapevole mostrarsi. 

     Bastando a me stesso non ho programmi giornalieri, se non quello di rispettare con impegno la ricerca dei mezzi per mantenere il mio stato di invisibile il più a lungo e il più credibilmente possibile.

      Il miglior modo per passare il tempo quando se ne ha troppo e non si ha più il senso di colpa di doverlo impiegare a servizio, è il modo di camminare. Antica arte del coltivare il moto perpetuo che il nostro corpo evoluto ci dona senza richiederci indietro nulla o poco più.

      Le mie giornate sono dunque scandite da passi, che mi piace chiamare “intervalli”, e da una salvifica sensazione di noia. La ricerca della condizione della noia è il mio fine ultimo, solo i privilegiati possono annoiarsi in modo gratificante. Possedere noia è possedere tempo, non è una condizione facile da creare e da ritrovare giorno per giorno.

      Utilizzare sempre lo stesso itinerario per la passeggiata mattutina può essere un buon metodo per immergersi nella noia. Io lo faccio sempre, è il punto di partenza. Sarebbe pericolosissimo farsi traviare da qualsiasi stimolo che sposti il quotidiano ripercorrere le stesse strade. Questo modo di porsi di fronte alla giornata ha diversi vantaggi: non serve pensare e prendere decisioni, il passo va da solo verso la sua destinazione, che è circolare, il tempo è libero di plasmarsi sul mio corpo come più gli aggrada. Non c’è ossessione in questo mio vagare ipnotico. Non cerco il tempo per coordinarmi con un semaforo o per arrivare all’angolo sempre alla stessa ora, che orrore, che errore sarebbe voler interferire, programmare e programmarsi pensando in questo modo di crearsi la rassicurante corazza del tempo-spazio piegato all’individuo. Io è proprio da questo che fuggo con tutte le mie forze e le mie risorse.

      Continuo a camminare, è camminando che mi alleggerisco di tutto. Ogni giorno devo togliere e ritogliere, perché voi siete testardi e non mollate. Voi volete sapere, volete credere, volete dire, volete sempre qualcuno che sia lì, per voi.

    A prima vista, quando qualcuno mi vede, e questa è già una notizia, potrebbe scambiarmi per un uomo stanco e pallido. Io è quello che spero, spero di essere scambiato.
La verità è che la gente mi annoia a morte.
Una noia che non è la sensazione di libertà assoluta di cui parlavo prima, questa è una noia che vuole interazione, che pretende attenzione, vuole essere coccolata la vostra noia che cercate con una generosità da preti di campagna di elargirmi nei vostri infantili ed educati approcci da esseri umani. Non m’interessa, grazie. Non dovete sentirvi in obbligo di cercare una vittima che dia una scossa alla vostra routine, io sto bene con me stesso, io voglio stare in pace. La pace non è quella misera e fuorviante menzogna che vi iniettano da quando siete nati. Non è stare in pace essere circondati da persone e cercare di trovare il modo di salvare gli ultimi e di non lasciare indietro nessuno, cercare la serenità tra le genti. Vi rendete conto che è una cosa abominevole e da ammalati mentali?
Tutto quello che succede vi dovrebbe far capire che il fine ultimo è isolarvi facendovi credere di essere parte di una società. Se non capite questo siete già morti.
  
      Quando siamo certi di aver fortificato e pianificato la nostra routine, l’esterno irrompe su di noi in modo inevitabile, sempre. Sotto casa hanno aperto un enorme cantiere, uno scavo che sarà attivo per più di cinque anni. Questo mi ha costretto a modificare il percorso della mia passeggiata, oltre al cantiere è stato aperto un nuovo supermercato, nuovi scenari dunque mi assediano da diverse angolazioni; il cantiere isola e divide, il supermercato attira umani concentrandoli in piccoli gruppi in attesa alle casse. Ho scoperto che il supermercato si fregia del titolo di “biologico”, un’assoluzione al senso di colpa che tutti voi portate verso il vostro vizio di procacciarvi il cibo in modo seriale.





 




martedì 4 ottobre 2016

Grande distribuzione



Ad un certo punto perse il conto…
Il polso le doleva e non ricordava più quante frustate avessero stabilito. Decise rapidamente di ricominciare a contare da zero e di fermarsi una volta arrivata a quindici.
«Quindici.»
L’uomo riverso sul cubo di legno al centro della stanza rimase immobile, il respiro era leggermente accelerato, sembrava avesse fatto qualche scalino di corsa e nulla più. Masochisti, erano i clienti migliori: non chiedevano sesso, erano precisi nelle richieste e non trattavano sul prezzo. Questo qui aveva una salumeria in centro, una delle poche rimaste, lavorava anche la domenica mattina e il pomeriggio si concedeva un’oretta per la sua passione; farsi frustare nudo.
Di solito Chantal non riceveva la domenica, ma il salumiere era una brava persona, sposato e con figli a cui non faceva mancare nulla.
“Il ceto medio e le sue debolezze andavano assecondati”, così la pensava Chantal.
Ormai era diventato un lavoro difficile. I clienti erano diminuiti, l’avvento di internet era stato una tragedia. 
Tutte quelle studentesse fuori sede che vedeva ciabattare in infradito  il sabato pomeriggio al supermercato, quelle erano la rovina. Capirai… i genitori gli pagano l’affitto dell’appartamento, e queste nella loro stanza con un computer e una webcam fanno soldi a palate senza correre rischi e con le spese di gestione praticamente a zero. Bisognava tenersi stretti i padri di famiglia, quelli un po’ tonti con le nuove tecnologie, quelli che comunque anche se pagata, una puttana va sempre trattata da signora. Quelli come il salumiere appunto, che adesso si stava infilando gli occhiali e stava già prendendo il portafogli anche se non si era ancora infilato le braghe.
«Grazie Chantal» e posa i due da cinquanta nel centrotavola a forma di tartaruga.
«Vieni a trovarmi quando vuoi gioia» e prende i due da cinquanta e li fa sparire nella tasca della vestaglia con il drago ricamato sulla schiena.
«Domenica prossima non posso, ho la comunione di mio nipote. Magari passo sabato pomeriggio, ci sei?»
«Il sabato pomeriggio vado a fare la spesa al supermercato.»
«Anche tu vai al supermercato, ormai vanno tutti lì, da me vengono le signore ricche che fanno la spesa per gioco e le cameriere delle signore ricche a prendere quello che si sono dimenticate di comprare le signore ricche.»
«Gioia hai ragione, ma io non ho tanto tempo per la spesa e se dovessi andare per negozi ci metterei tutto il giorno, ormai siete rimasti pochi e distanti.»
Si infilava le braghe, ed era un mondo ben triste quello che si figurava senza puttane e salumerie.
Studentesse e supermercati.
Il futuro era destinato alla grande distribuzione del piacere.

martedì 13 settembre 2016

12 Settembre 1980

Ieri ci fosse il primo giorno di scuola, finito il giorno ci siamo ritrovati con Luca e Sebastiano in cortile, dietro la siepe dove i più grandi ci buttano i giornaletti nudi. A Sebastiano gli hanno fatto imparare che i bagni dei bambini sono quelli con la porta azzurra e quelli delle bambine ci hanno la porta rosa. Luca ha detto che la signora maestra quando gli parlava vicino alla faccia puzzava un po', un po' come l'odore di sua nonna che vede solo a Natale. La mia maestra è una suora e ha un baffo sotto il naso, però ha le mani morbide che però ti mette sempre in testa e ti sfrega a partire dal coppino fino alla fronte e ritorno, due o tre volte di fila. Non mi piace molto quando lo fa. Tutti e tre abbiamo una giacchetta nera con il colletto bianco che si può staccare, Luca l’ha perso, il colletto. Lui ha detto che glielo hanno rubato, ma l’ha perso. Questo fatto gli ha procurato un guaio perché la maestra si è arrabbiata e ha urlato che se perde il collo il primo giorno di scuola arriverà a fine anno senza testa. Inoltre la maestra gli ha avvolto intorno al collo della carta igienica, perché così è uguale a tutti gli altri bambini della classe, che lui non è mica speciale e che tenere in ordine la divisa è importante. Seduta vicino a me si è messa una bambina di nome Chiara che ha gli occhiali. Siccome all’inizio ci hanno fatto alzare in piedi uno per uno e ci hanno fatto dire il nostro nome e cognome a voce alta, ho scoperto che Chiara di cognome ha un altro nome, lei dice di chiamarsi Chiara Dalessandro, e oltre ad avere un nome che è un cognome ha detto pure che oggi era il suo compleanno. Alla fine del giro dei nomi, che io mi ricordavo solo quello di Chiara, la maestra ha voluto farci cantare la canzone degli auguri. Io proprio cantare mi fa schifo, ma Chiara era troppo vicina e non potevo fare finta altrimenti si accorgeva e ho dovuto cantare quella canzone schifosa che cantano sempre tutti al compleanno, anche al mio. Sebastiano ha vomitato in classe, dice che ha toccato sotto il banco e ha trovato una cicca ancora molle che gli si è attaccata ai diti, dice che quando ha visto i diti con la cicca sopra ha vomitato. Sebastiano vomitava anche all’asilo, lo so perché eravamo allo stesso asilo e i primi giorni vomitava sempre. Hanno dovuto chiamare la mamma di Sebastiano per portarlo a casa prima, che poi una volta che vomita poi sta bene, infatti era già dietro la siepe prima che arrivassimo io e Luca. Oggi è l’ultimo giorno che possiamo stare tutto il pomeriggio dietro la siepe perché domani torniamo a casa alle quattro. Ci hanno detto che dobbiamo portarci un tovagliolo con sopra le nostre iniziali, io ho quello di mio fratello dell’anno prima, che le iniziali sono le stesse. Sebastiano vuole sapere se Chiara Dalessandro ha le tette. Gli ho detto che ha gli occhiali, ma che domani guardo bene. Luca è nella mia stessa scuola, ma il primo giorno non ci siamo visti perché dei bambini più grandi gli hanno detto che se usciva in cortile la maestra lo faceva camminare senza scarpe sulla cacca. Allora lui per non sbagliare è rimasto in classe. Adesso anche io ho paura di incontrare questi bambini più grandi, che stanno nella mia scuola, ho proposto a Luca di decidere un punto nel corridoio in cui trovarci quando ci fanno uscire per l’intervallo e insieme di uscire in cortile. Luca ha detto che era una buona idea. Ci dispiace per Sebastiano che è da solo, ma lui dice che non ci sono bambini grandi, che da lui sono tutti uguali. Io non gli ho detto niente, ma mia mamma fa la maestra nella scuola di Sebastiano e mi ha detto che i grandi arrivano domani.

martedì 26 luglio 2016

TERROR VACUI


Il nichilista 2.0 è stato trovato riverso nel proprio liquido seminale. Barricato all’interno del suo appartamento: due camere e un bagno con doccia, piano cottura vetrificato ad alta tecnologia “touch-no fire”.
La scaffalatura in acciaio cromato con piani a listelle di teak conteneva viveri per cinque anni. Etichettati e divisi tra proteine e carboidrati, lieve presenza di grassi saturi nell’ultimo scaffale in alto, la vergogna nascosta alla vista di una confezione di pancetta sottovuoto.
La serratura della porta era stata riempita con una saldatura di stagno a filo continuo, levigata e resa perfettamente piana e inaccessibile.
I tre macroschermi ancora in funzione nel momento dell’irruzione erano sintonizzati sui principali canali di news, i cinque computer elaboravano il software perpetuo che aggiorna i feed dei social in automatico; sincronizzandosi sui titoli delle prime pagine dei quotidiani on-line.
Non è stato trovato nessun biglietto a spiegare l’innaturale gesto. Non è stato possibile accertare se i vicini conoscessero il nichilista. Nessuno ha voluto accedere al programma di interviste post-mortem, rinunciando al gadget tecnologico (penna ottica) che è uso rilasciare in questi casi.
Verranno visualizzati i filmati delle web-cam e tracciato un profilo sociale dell’immondo che ha osato sottrarsi al proprio tempo.
La sepoltura non avrà luogo e sarà data comunicazione del nome solo a mercati chiusi.

Ricordiamo alla cittadinanza che è sconsigliato immergersi nel flusso di notizie per più di trentadue minuti al giorno, ed è vietato: analizzare, comparare e approcciare con spirito critico il flusso di notizie.

martedì 5 luglio 2016

L’odore delle case dei vecchi



 (La grande bellezza – P. Sorrentino)

Quanto mi piaceva questa frase, ci passavo le giornate a ripetermela da solo: “l’odore delle case dei vecchi, l’odore delle case dei vecchi…” una litania, una cantilena che mi riportava ai margini di un’infanzia che ogni giorno mi sembra più lontana e idealizzata, modificata e fasulla nei ricordi che precipitano fuori dallo spazio utile del vero e certo.
La frase è quella del film, il film famoso. Ho provato a ricordare la mia vita come un film, ho cominciato dai titoli di coda, dall’ultima inquadratura. Siccome “l’ultima inquadratura” non è ancora accaduta, nella vita le inquadrature accadono, non si girano. Ho usato l’immaginazione. Ho proiettato.

Sono da solo su una terrazza, in mutande, seduto su una sedia di legno. Sto ricordando, non ricordo nulla però. Questo è quello che mi fa piangere: sforzarmi di ricordare e vedere solo il bianco del cielo, il lattiginoso e piatto bianco delle giornate afose di Milano. La pazienza, è sempre e solo questione di pazienza, pazienza e resistenza. Comincia qualcosa ad affiorare, e poi come un neonato che sbuca nel mondo ci si ricorda…

Quando molti anni fa, in seconda superiore mi bruciarono la guancia con la capocchia incandescente di un accendino lì per lì non feci nulla, il tizio ripetente che mi aveva arrovellato la faccia era molto più grosso di me, aspettai.
Quando suonò la campanella della ricreazione a metà mattinata fui l’ultimo a uscire dalla classe, prima di uscire ero riuscito a intrufolare la mano sotto il banco dello stronzo ripetente e a prendere il suo astuccio: vecchio e blu, di tela. Mi portai l’astuccio in bagno e con calma lo sfregiai una ventina di volte con il taglierino, poi arrotolai sulle ferite circa mezzo rotolo di scotch. Scivolai in classe e rimisi l’astuccio al suo posto. Il tizio grosso stronzo ripetente ci rimase male, stupidamente male, perché non sospettò di me. A mio modo di vedere avrei dovuto essere il primo imputato, ma lui si limitò a qualche invettiva gettata nel mucchio a mezza bocca. Fu il mio primo atto deliberato a delinquere.

Dalla terrazza si vede la facciata del palazzo di fronte, anonima e liscia, i miei capelli sono lunghi fino alle spalle che sono diventate magre. Piango ancora, senza urgenza, la gravità cola dai miei occhi e io mi concentro sulle lacrime.

L’onda si portò in alto il canotto con noi tre sopra ribaltandoci. Io rimasi sotto il canotto e quando cercai di uscire dall’acqua sbattei la testa contro i salsicciotti del fondo del canotto, che come una fionda mi ributtò sott’acqua. Risalii come una molla e come una molla il canotto mi respinse di nuovo, effetto ventosa, avrei poi analizzato. Nel frattempo era il panico. La paura e la certezza di non uscire da lì sotto e di affogare a sette anni in un metro e mezzo d’acqua. Quello che ricorderò sempre è il senso di ingiustizia. Perché io? Dovevo proprio morire solo e al buio? Ma soprattutto, perché nessuno si accorgeva di nulla e non veniva in mio aiuto? Riemersi. Nessuno si era accorto di nulla, il sole era ancora caldo ed era ancora estate. Fu il mio primo tentativo di andarmene controvoglia.

L’odore delle case dei vecchi. La violenta contrazione del tempo che spreme fuori i ricordi sempre meno spruzzi e sempre più gocce isolate.
La penosa considerazione che ricordare non è un riflesso condizionato.
Rievocare. Questo è il nostro atto a delinquere che reiteriamo in affannosa voracità in gara sui nostri anni.