giovedì 31 dicembre 2015

Margaret & Dreamer #18

Non ho più visto Dreamer.
La mia esistenza continua a Montrose. 
Ho preso l’abitudine di fare lunghe camminate, e in certe giornate quando guardo la strada che ho davanti mi sembra che lui l’attraversi, come tante volte ha attraversato la mia vita. Non riesco mai ad essere abbastanza veloce per raggiungerlo. Lo so che in realtà davanti non c’è più nessuno, ma quella sensazione che mi trapassa il petto e il cervello è reale, e non fa nulla per nascondersi.
Ho imparato a non farmi più domande, non mi riesce per niente, continuo a dare il tormento a tutti durante le serate di terapia di gruppo.
Ci sono delle mattine che se potessi lo investirei con la macchina, altre che correrei da lui piangendo, se solo sapessi dove si è infilato quel bastardo.
In qualche modo penso che entrambi saremo sempre in debito con il destino, un conto che nessuno vuole chiudere. Poi percepisco il gusto della follia che provoca la speranza dell’attesa e so che non ci sono abbastanza muri nel mio cuore per proteggermi, una cosa di cui vado fiera come una medaglia di latta che ha valore solo per me.
Non ho mai più letto le sue lettere, mi rimangono certe frasi che sono carne viva, frasi che porterò per tutta la vita come perle di un rosario: chi crede, lo fa scivolare tra le dita e ne trae conforto, il mio rosario è filo spinato.
Jeremy, Orizzontale, e i pochi altri che ancora frequento non mi chiedono mai niente, ci sono state sere in cui i miei occhi hanno gridato aiuto senza che me rendessi conto, e loro hanno sempre lanciato dei razzi per farmi tornare dal buio.
Come direbbe quel pazzo arrogante che ho amato: per essere l’ultimo a rimanere in piedi non conta quanto sai darle ma quanto sai prenderle.
Mi sto allenando my sweet dick.
   

Grisom è stato trovato morto nel suo letto, dicono si sia suicidato ingoiando delle pillole e abbia lasciato un biglietto con sopra scritto: Grisom was here.  

lunedì 28 dicembre 2015

Anomalie

Se ne sta tutto solo seduto all’ultimo tavolo, quello vicino alla porta della cucina, il suo tavolo preferito perché può vedere tutta la sala.
Lui, e il suo taccuino nero.
“Cos’è che scrive tutte le sere?”, gli ha chiesto una volta Gaetano, il capo sala.
“Segno le anomalie.”, gli ha risposto lui.
Gaetano ha fatto finta di capire, poi, per non fare la figura del fesso, gli ha raddrizzato la forchetta del dolce.
Una sera è riuscito a dare una occhiatina veloce sopra la spalla del cliente, quello che è riuscito a leggere, perché apposta ci ha messo più del dovuto con il macinino del pepe sulla tagliata è stato: possibile primo appuntamento, lui schiena dritta, lei mani incrociate. Anomalia: niente vino sul tavolo. 

Adesso ogni volta che è pronta la comanda per il tavolo diciotto, Gaetano la portata la controlla tre volte prima di servirgliela lui stesso, che mica ci vuole finire sulla lista delle anomalie. 

venerdì 25 dicembre 2015

Come back (MARGARET # 17)

I tergicristalli sono spenti. La pioggia scompone l’immagine dell’entrata del commissariato in perle luminose che scivolano sul parabrezza.
Dopo aver aspettato un’ora nel bosco è tornato sulla strada e ha rubato una macchina. Ha preso la direzione verso il centro di Montrose, è passato un paio di volte davanti a casa di Margaret e poi si è parcheggiato davanti al commissariato.
Il tenente Stetson tiene aperta la porta e fa passare prima Margaret, ha insistito  per farla accompagnare a casa da un’auto della polizia ma senza successo. La scorta giù per gli scalini proteggendola con un ombrello.
Stetson insite perché Margaret tenga almeno l’ombrello.
«Grazie tenente, glielo riporterò appena possibile.»
«Può tenerlo signorina Bencroft, ne abbiamo diversi in centrale.»
Margaret  s’incammina sul marciapiede.
Stetson rimane a fissarla e a cercare di dare un senso alla gentilezza che lo investe ogni volta che incontra o pensa a Margaret Bencroft.
Quando l’unica cosa che riesce ormai a distinguere è un’ombra che gira a sinistra, risale gli scalini.   
La macchina si stacca dal lato della strada lenta come un pescecane, accende le luci dopo venti metri, e gira a sinistra.
Margaret butta l’ombrello nel primo cestino che incrocia, s’infila le mani nelle tasche del cappotto e si sente leggera sotto l’acqua che cade al rallentatore su di lei.
Dreamer guida piano, quando l’ha quasi raggiunta accelera e s’infila in un passo carraio qualche metro più avanti bloccando il marciapiede. Non sa cosa sia successo dentro il commissariato, non sa se la stanno seguendo, continua a ripetersi che dovrebbe tornare all’ospedale ma spegne il motore e guarda Margaret venirgli incontro.
Nota la macchina quando ormai è a pochi passi da lei pensando che bisogna essere proprio stronzi per fermarsi in quel modo e bloccare il passaggio.
Riconoscere il suo viso attraverso il vetro le sembra naturale, sorridergli e aprire gli occhi sui suoi è un riflesso incondizionato, si rende conto di essere completamente immobile, non sa da quanto, potrebbero essere passati anche venti minuti, non ne ha idea. Sa solo che da un certo momento in poi non ha più mosso un sola fibra del suo corpo. Adesso che lui è in piedi davanti a lei non ricorda di averlo visto scendere dalla macchina, non ricorda il rumore della portiera. C’è solo Dreamer che la sta fissando.
E il cuore esplode e tutta la forza viaggia nel suo braccio e nello schiaffo che lo colpisce sul viso.
«Grazie per prima, all’ospedale.»
«Vattene. Scappa. Vai via e non tornare.»
«Hai parlato con Grisom?»
«È l’unica domanda che ti viene in mente?»
Dreamer le prende una mano, lei se la fa prendere. Ha le mani fredde, o forse sono fredde le sue.
«Mi aspetterai?»
Margaret fa due passi indietro: le loro braccia si tendono, un filo che resiste.
«Perché hai rovinato tutto? Dovresti farti questa di domanda, oppure perché non abbiamo mai ballato insieme? Oppure perché non hai mai tenuto una mia lettera tra le pagine di un libro? Sai rispondere? I balli, le canzoni, le lettere, gli abbracci in equilibrio sul bordo dei marciapiedi. Tutte queste cose ci sono solo in quell’attimo che succedono. Se non le fai succedere, il tempo perso e rovinato è quello. Quel tempo è il tuo vero omicidio.
«Possono succedere ancora un sacco di cose, possiamo vedere ancora un sacco di posti insieme.»
Il filo si spezza: Margaret lascia la presa e il braccio le cade lungo il fianco. Vorrebbe rialzarlo e posargli una mano sul viso, avvicinargli la nuca e baciarlo, ma non fa niente di tutto questo. Pensa di fare quello che è giusto.
«Ti hanno tradito, sapevano che saresti arrivato all’ospedale. Ti stavano aspettando.»
“Eveline”. Dreamer sa che può essere stata solo lei.
Dreamer fa un passo in avanti, Margaret uno indietro. Si fermano, si guardano. Non parlano.
«Io non mi fermo Margie, non ci riesco, non posso, non voglio. Verrò a prenderti e ce ne andremo, te lo prometto.»
Risale in macchina e riparte.
Si sente stanca, come se su quel marciapiede ci abbia passato la notte. Come se la pioggia, che adesso le picchia in testa e le porta via le lacrime cominci a bagnarla solo adesso.

lunedì 21 dicembre 2015

Babbo Blake

«Non esagerare con il fondotinta Ramona.»
«Non si Preoccupi sig. Blake, solo una spolveratina per non farla sembrare troppo lucido.»
Blake si guarda allo specchio. Le luci sulla cornice gli ricordano che stasera è la vigilia di Natale e che sarà l’ultima puntata prima delle vacanze.
«Ecco fatto sig. Blake, io ho finito. Buon Natale.»
«Buon Natale, buon Natale, vai Ramona, lasciami solo.»
“Due minuti e si va in ondaˮ. Urla una voce dal corridoio.
Blake si alza dalla poltrona, comincia a fare strane facce con la bocca e con il viso, un po’ di stretching per sciogliere gli unici muscoli che usa in vita sua.
Deve fare un discorso di auguri, o qualcosa del genere, la direzione del canale ha insistito. Non vuole, non è capace di fare discorsi natalizi, non gli vengono. Non fa l’albero, non fa regali, al massimo mangia con gusto qualche antipasto ricercato in uno dei ristoranti del centro.
«Ramona!», urla da dietro la porta.
La truccatrice entra nel camerino con il pennello in una mano e una spugnetta nell’altra, pronta per tamponare o ritoccare.
Blake ha ancora i fazzoletti di carta infilati nel colletto della camicia per proteggerla dalle macchie di trucco.
«Chiudi la porta Ramona.»
Ramona esegue, non capisce cosa deve fare, il trucco le sembra in ordine, del resto lei è brava e lo sa.
Blake si leva i fazzoletti e li butta nel cestino, prende un foglio e una penna e si siede con mezzo sedere sul tavolo del trucco.
«Dimmi, cosa ti piace del Natale Ramona?»
“Un minuto!”.
«Forza Ramona, cosa ti piace del Natale?»
«Beh, è Natale.»
«Oh cazzo, ma sei ritardata? Lo so che è Natale. Voglio sapere cosa ti piace, cosa ti fa andare in giro a dire a tutti quelli che incontri “Buon Natale”? Muoviti, la prima cosa che ti viene in mente.»
«Mah… non saprei, è una specie di tregua, cioè un giorno dove tutti sono felici, no?»
Blake butta il foglio di carta nel cestino ed esce dal camerino.
A passo svelto si dirige verso lo studio dove tutto è pronto per la messa in onda.
“Una specie di tregua… perché tutti sono felici…”
«Cinque secondi sig. Blake.»
Blake, sorriso, occhi alla “sono il tuo migliore amico”.
«Tre, due, in onda.»
«Buona tregua di Natale, amici miei! Sono felice, perché tutti noi siamo felici. Non credete a chi vi dice che il Natale non gli piace. Non è vero, è Natale, no? La tregua è bella, la tregua ti permette di riflettere sulle future battaglie, ecco. Non è fantastico sapere in anticipo almeno un giorno nell’anno in cui sarete sicuramente felici? Quindi vi auguro di passare in trince… ehm in famiglia questa tregua di Natale, e di

«Interrompi! Cartello, vai con il cartello, stoppa tutto…»


BUON NATALE DA SONTUTTESTORIE

venerdì 18 dicembre 2015

Quanto sei bella (DREAMER # 16)

“Montrose Hospital”, l’insegna si accende quando Margaret esce dall’ingresso principale, le porte automatiche si aprono come un sipario, la luce fredda la illumina appena mette piede sul piazzale.
Dreamer sente il rumore dei suoi tacchi sull’asfalto, è a cento metri da lei, ma è convinto di sentirlo quel rumore. Ha le mani fredde, il vento che arriva dalle montagne gli soffia sul collo e gli ricorda che è lì per un motivo preciso. Si sforza di controllare il respiro, gli occhi sono due pietre immobili. Le gambe bruciano di desiderio, tutti i suoi muscoli vorrebbero avvolgere la donna che sta guardando.
“Perché sei qui? Quanto sei bella.” Queste sono le uniche immagini che gli girano nella testa.
Margaret sente il cicalino elettronico mentre sta guardando il profilo della cima del Monte Rose, sposta lo sguardo e vede l’uomo in macchina che sta parlando alla radio, un altro uomo è seduto di fianco. Continua a camminare, la nota stonata di quello che ha appena visto è un fischio nelle orecchie. Lo sguardo analizza veloce le altre macchine sul piazzale, ce n’è una parcheggiata con il muso in avanti rispetto a quelle che ha vicino, a Margaret basta un secondo per riconoscere al posto di guida il poliziotto dell’interrogatorio.
“Quanto sei bella, quanto sei bella.” Un passo, basterebbe un passo per mettere in moto tutto il suo corpo. Il piede destro si stacca per primo.
Margaret si ferma. Prende il pacchetto di sigarette dalla tasca del cappotto. Ne accende una e tira una lunga boccata. Fissa la macchina con il poliziotto e comincia a cantare a squarciagola.
« We skipped the light Fandango turned cartwheels 'cross the floor i was feeling kind of seasick but the crowd called out for more…»
Dreamer arretra, rientra nel buio del bosco che costeggia la strada. Sente la voce di Margaret arrivargli in faccia, si concede cinque secondi di puro ascolto, poi si volta.
Il poliziotto non capisce cosa stia succedendo e cosa ci faccia Margaret Bencroft nel parcheggio dell’ospedale.
Margaret continua a cantare, adesso avanza ondeggiando verso la macchina, strizza l’occhio al poliziotto e lo chiama a sé con il dito indice.
«… the room was humming harder as the ceiling flew away when we called out for another drink the waiter brought a tray…»
Quando manca un metro, tira il mozzicone di sigaretta sul parabrezza con tutta la forza che riesce a mettere nelle dita.
Le portiere si aprono, i due uomini scendono e si dirigono verso Margaret.
Il poliziotto scende e afferra il polso di Margaret.
Dreamer cammina veloce verso l’interno del bosco. Prende la salita e comincia a correre, arrivato in cima alla collina si gira a guardare il piazzale dell’ospedale: Margaret è un puntino scortato da quattro braccia che la fanno sedere dentro la macchina da cui è sceso l’uomo da solo.
Mormora piano: «kiss kiss my perfect shoot, sei sempre stata quella più sveglia.»

lunedì 14 dicembre 2015

MONBA80

«Non è che così muore?»
«No, e poi anche se muore gli sta bene. Ti sta bene se muori?»
Queste sono Erica e Michela.
Erica è un’insegnante alle elementari, quindi sarebbe maestra Erica.
Michela è project manager in una multinazionale, quindi sarebbe la Dott.sa Rosati (che è il suo cognome).
Quello legato sul divano davanti a loro che dovrebbe rispondere alla domanda se gli sta bene crepare alle diciassette di un sabato pomeriggio è Riccardo Mombelli, dentista di Carugate.
Mombelli è iscritto a Finder, anche Erica e Michela sono iscritte a Finder.
«Allora ti sta bene crepare Momba80?»
Momba80 è il nickname di Riccardo.
“Trentacinquenne, libero. Sono un tramonto nell’anima e una mareggiata di emozioni, cerco stella marina per salpare insieme”
«Guarda che se non gli levi il guanto da forno dalla bocca mica riesce a risponderti.»
L’idea del guanto da forno è stata di Michela. Che adesso si avvicina a Momba80, gli leva il guanto dalla bocca e gli tira una cinquina sulla guancia, che ormai è venti minuti che è rossa perenne a furia di prendere schiaffoni.
Mombelli non è cattivo, iscriversi a Finder gli sembrava una buona idea: donne e uomini che si cercano, uno legge i profili, le descrizioni, guarda le foto e se tutti e due ci mettiamo un bel “mi piace” è capace che dopo qualche messaggio stiamo già spalmati su un materasso. Una unione civile e consenziente, pochi rischi legali e tante trombate. In sintesi era questa la filosofia di Momba80, che anche il nick gli sembrava azzeccato: virile e chiaro, un’assonanza tra tromba e cobra con in più l’informazione anagrafica.
«Signorina ma che vuole? Perché mi avete legato e mi picchiate? Io nemmeno vi conosco.»
«Ma noi si, noi ti conosciamo. Sappiamo, per esempio, che ieri sei uscito con una certa Donatella, vero?»
«Donatella? No, ieri sono stato a casa.»
Schiaffone Erica, schiaffone Michela.
«Si, si, Donatella, come no! Sono uscito, sono uscito. Qurantadue anni, avvocato, le piacciono i gatti e corre tutte le mattine al parco. Ma giuro che non l’ho toccata.»
«Non è questo il punto.» Rispondono in coro.
Momba serra la mascella, le fissa. Adesso è ora di fare il duro!
“Riccardo Mombelli, queste due zitelle a te ti fanno una pippa, tu adesso le prendi a calci in culo e te ne vai, stracci le corde con cui sei legato e ti vai a fare un bell’aperitivo. Secco e ghiacciato.”
Non funziona, Riccardo si sta cagando sotto.
«Lo sappiamo che non l’ha toccata Sig. Mombelli, lei non le ha nemmeno offerto il caffè. Lei, ha fatto pagare il caffè alla signorina Donatella, adducendo la scusa che gira solo con bancomat e carte di credito, le quali, per una incredibile sfortunata coincidenza erano state dimenticate nel vano portaoggetti della sua Ferrari.»
«E allora che cazzo volete stronze?»
C’è da capirlo il Momba, comincia a essere sotto pressione, gli pare che le due sappiano tutto sulle sue tecniche da primo appuntamento.
«Lei si è anche presentato in tuta. Capisce che la sua posizione è molto grave, merita una serie infinita di bastonate sulla nuca e pubbliche scuse al mondo femminile sul suo profilo.»
Momba è scosso.
«Si è vero, ero in tuta e non ho offerto il caffè, ma guardate che io a casa ho una cabina armadio che ci può dormire una squadra di calcetto. Presentarmi in tuta e fingermi un ricco distratto lo faccio solo per vedere la reazione della donna di turno, una specie di test psicologico.»
Schiaffone Erica, schiaffone Michela.
Schiaffone Erica, schiaffone Michela.
Schiaffone Erica, schiaffone Michela.
Mombelli ha la faccia che brucia e le lacrime agli occhi.
«Sei fottuto, con noi non si scherza, noi quelli come te non li perdoniamo, andiamo a stanarli casa per casa. Siete quelli che non aprono la porta quando si entra al ristorante, quelli che non versano il vino, quelli che ordinano la coca cola con il pesce. Quelli che al primo appuntamento si presentano senza essersi fatti una doccia. Quelli che cercano una governante perché è ora di sposarsi. Quelli che non telefonano mai, mandate solo messaggi vocali, che dopo i trenta è gravissimo. Quelli del “no guarda, te lo dico subito, io non sono mica così…” e poi segue una stronzata. Siete quelli che girano con il borsello, ma viscidi, al primo appuntamento lo lasciate a casa.»
«Giuro che il borsello l’ho messo solo una volta, ed era di Gucci.»
 Triplo schiaffone Erica, schiaffone Michela.

Stendono un telo di plastica sul tappeto, mettono del cotone nella bocca di Mombelli e sopra del nastro adesivo. Lo buttano per terra. Si accende la motosega.

Monba80- ultimo collegamento sabato 12/12/2015 – 14.47



venerdì 11 dicembre 2015

Grisom (MARGARET #15)

Il pavimento è bianco, una striscia verde pallido corre sulla parete, c’è un corrimano dello stesso colore sui due lati del corridoio.
Margaret cammina al centro, i neon sopra la sua testa appiattiscono la sua ombra ogni tre passi. Nessuno le parla, c’è poca gente in giro. Conosce solo il numero della camera.
L’ultimo piano del Montrose Hospital è destinato ai pazienti cosiddetti residenziali.
La porta della numero ventotto è chiusa. Ha lo stesso colore pallido della striscia sulla parete. Scelgono colori che rilassano, tenui e accondiscendenti.
Apre la porta piano, lenta, cercando di fare il meno rumore possibile, ha smesso anche di respirare.
Un letto al centro della stanza contiene una figura immobile, sdraiata sulla schiena.
Dalla finestra entra la luce da cattedrale dei tramonti filtrati dei piani alti.
Il primo pensiero che le viene in mente è quello di essere dentro un quadro: martirio di qualche Santo, nell’attimo prima dell’ascensione. Si sente fuori luogo nel quadro, si sente tropo ingombrante, le sembra di essere enorme. Si sente sporca in mezzo a quella luce.
Richiude la porta e si avvicina al letto.
Non ci sono peli sul viso, nemmeno ciglia, niente capelli. La pelle è tirata sugli zigomi, sulle guance e sulla fronte sembra cuoio bagnato e seccato al sole, cicatrici in rilievo e profonde zone irregolari dove il colore è più acceso. Il naso è scomparso, solo due buchi neri in mezzo alla faccia.
Un bastone è appeso alla spalliera.
Gli occhi fissano Margaret. Quello destro si muove e la studia fin dove può arrivare. Il sinistro è vuoto, riempito da una protesi.
Il ronzio del motore elettrico fa alzare la parte mobile del letto. L’uomo ha le braccia lungo i fianchi, sotto la mano destra con la nocca rimasta del dito indice preme il telecomando e torna il silenzio.
«Spostati davanti al letto, non farmi girare la testa.»
Margaret ubbidisce.
«Sei venuta per lui?»
Non sa perché è venuta, per lui, certo. Per dire che Dreamer è scappato, ma che senso ha? Non è mai venuta a trovarlo dopo l’incendio. Non gli deve nulla. Ha lavorato all’autolavaggio solo per due mesi. Si è messa in testa che doveva venire qui a dire qualcosa. Bella cazzata Margaret. Cosa vuoi dire: mi dispiace, ma in fondo un po’ se l’è meritato? Poi lo dice.
« Credo che Hugine voglia ucciderla.»
L’uomo schiaccia il telecomando, è seduto davanti a Margaret adesso. Le spalle sono piccole, spalanca la bocca e ride, con le gengive scoperte, con la saliva che scivola sul mento perché non trova le labbra.
«Mi farebbe un favore il tuo bastardo. Margie cara.»
Quella bocca che anche così è la stessa dei complimenti spinti, dei sorrisini sul culo.
«Dovevano affogarlo da piccolo quello schifoso teppisssta.»
La esse è faticosa, adesso più di allora.
«Vuoi salvarlo Margie? Vuoi salvarlo ancora una volta?»
«Non voleva ucciderla, non allora.»
L’uomo alza la mano e tende le due dita rimaste. Le punta verso Margaret.
«Io l’aspetto. L’aspetto da quando mi sono risvegliato in questo stato. Sai perché non ho mai detto che quella notte sei stata tu a fare la telefonata per farmi tornare all’autolavaggio dopo la chiusura? Perché volevo che la colpa fosse tutta di Hugine. Volevo che tu rimanessi da sola, piccola puttanella sola con i suoi sensi di colpa.»
«Può chiamare la polizia se vuole, può farlo adesso.»
«Io non voglio la polizia, io voglio te Margaret. Sei tu il premio Margie cara. Adesso vattene, lascia il vecchio Grisom a ricordare i bei tempi andati… metti ancora le mutandine spaiate dal reggiseno Margie?»

La porta si apre, il carrello entra silenzioso.

«Non può rimanere durante la cena signorina.»



lunedì 7 dicembre 2015

IO

Io sono colei che cresce nella notte, il mantello che vi soffoca.
Sono il fardello che vi trascina sul fondo, musa dei sensi di colpa.
Io sono la violenza che avvolge il vostro cuore, la solitudine che vi porta al delirio.
Sono il falso che dichiarate, l’amore che vi sfugge.
Io sono il doppio fondo dei vostri desideri, la scheggia che scava sotto le unghie.
Sono l’ultima amante, l’inutile appello alla grazia.
Io sono il crepaccio che avete aperto, l’urlo che canta dal precipizio.
Sono la fiaba scritta dal boia, l’ultimo chiodo che affonda nella bara.
Io sono la memoria del condannato, la serpe che si avvicina silenziosa.
Sono il sorriso alle spalle, il ricordo che deforma.
Io sono il sicario del destino, la vedova che aspetta all’altare.
Sono cecità perpetua, vessillo che disonora .
Io sono futile, eppure mi bramano.

Vi farò brandelli irriconoscibili, vesti strappate gonfie di pus, goffi esseri senza arti con gli occhi sbarrati dal dolore.

Io sono la vendetta.
Io ho un solo desiderio: bruciare insieme a voi.


venerdì 4 dicembre 2015

Predatore (DREAMER #14)

Vestito, rasato, i capelli tagliati corti.
Eveline è molto professionale, mi ha fatto trovare tutto ciò di cui avevo bisogno sulla mensola del bagno, profumo compreso.

Mi vergogno a guardare il mio viso senza barba.
La vergogna è una cosa che odio,  ucciderei per vergogna.

Eveline è davanti al televisore e mi indica una tazza di caffè sul tavolo.
«Le tue quotazioni salgono Bedford, hai vinto un’accusa di omicidio.»

La faccia di Pit occupa metà dello schermo, l’altra metà è presidiata da una giornalista che sta parlando davanti al cancello della clinica in cui ero rinchiuso.
Pit è morto.

«Non doveva fidarsi, io e te non siamo amici Pit, continuavo a ricordarglielo. La gente tende ad abituarsi, questo è il loro errore. Dividi la stanza con qualcuno, dopo qualche mese ti abitui e pensi che sia un tuo amico. Dimentichi il motivo per cui quella persona è rinchiusa in quella stanza. L’abitudine rende deboli Eveline. L’abitudine fiacca il tuo istinto. L’uomo abitudinario soccombe perché non sente più il predatore, soccombe perché ha dimenticato di essere un cacciatore.»

«Tu sei un essere paranoico e pericoloso, lo sai vero?»

«Siamo tutti pericolosi Eveline, è questo il bello di essere umani, a volte siamo esseri, e a volte umani.»

«Dammi i miei soldi e vattene.»

Vestito, profumato, rasato.
Il predatore cammina verso il suo terreno di caccia.
La fermata dell’autobus, quello che porta all’ospedale di Montrose.