(La grande bellezza – P. Sorrentino)
Quanto mi piaceva questa frase, ci passavo le
giornate a ripetermela da solo: “l’odore delle case dei vecchi, l’odore delle
case dei vecchi…” una litania, una cantilena che mi riportava ai margini di
un’infanzia che ogni giorno mi sembra più lontana e idealizzata, modificata e
fasulla nei ricordi che precipitano fuori dallo spazio utile del vero e certo.
La frase è quella del film, il film famoso. Ho
provato a ricordare la mia vita come un film, ho cominciato dai titoli di coda,
dall’ultima inquadratura. Siccome “l’ultima inquadratura” non è ancora
accaduta, nella vita le inquadrature accadono, non si girano. Ho usato
l’immaginazione. Ho proiettato.
Sono da solo su una terrazza, in mutande,
seduto su una sedia di legno. Sto ricordando, non ricordo nulla però. Questo è
quello che mi fa piangere: sforzarmi di ricordare e vedere solo il bianco del
cielo, il lattiginoso e piatto bianco delle giornate afose di Milano. La
pazienza, è sempre e solo questione di pazienza, pazienza e resistenza.
Comincia qualcosa ad affiorare, e poi come un neonato che sbuca nel mondo ci si
ricorda…
Quando molti anni fa, in seconda superiore mi
bruciarono la guancia con la capocchia incandescente di un accendino lì per lì
non feci nulla, il tizio ripetente che mi aveva arrovellato la faccia era molto
più grosso di me, aspettai.
Quando suonò la campanella della ricreazione a
metà mattinata fui l’ultimo a uscire dalla classe, prima di uscire ero riuscito
a intrufolare la mano sotto il banco dello stronzo ripetente e a prendere il
suo astuccio: vecchio e blu, di tela. Mi portai l’astuccio in bagno e con calma
lo sfregiai una ventina di volte con il taglierino, poi arrotolai sulle ferite
circa mezzo rotolo di scotch. Scivolai in classe e rimisi l’astuccio al suo
posto. Il tizio grosso stronzo ripetente ci rimase male, stupidamente male,
perché non sospettò di me. A mio modo di vedere avrei dovuto essere il primo
imputato, ma lui si limitò a qualche invettiva gettata nel mucchio a mezza
bocca. Fu il mio primo atto deliberato a delinquere.
Dalla terrazza si vede la facciata del palazzo
di fronte, anonima e liscia, i miei capelli sono lunghi fino alle spalle che
sono diventate magre. Piango ancora, senza urgenza, la gravità cola dai miei
occhi e io mi concentro sulle lacrime.
L’onda si portò in alto il canotto con noi tre
sopra ribaltandoci. Io rimasi sotto il canotto e quando cercai di uscire
dall’acqua sbattei la testa contro i salsicciotti del fondo del canotto, che come
una fionda mi ributtò sott’acqua. Risalii come una molla e come una molla il
canotto mi respinse di nuovo, effetto ventosa, avrei poi analizzato. Nel
frattempo era il panico. La paura e la certezza di non uscire da lì sotto e di
affogare a sette anni in un metro e mezzo d’acqua. Quello che ricorderò sempre
è il senso di ingiustizia. Perché io? Dovevo proprio morire solo e al buio? Ma
soprattutto, perché nessuno si accorgeva di nulla e non veniva in mio aiuto? Riemersi.
Nessuno si era accorto di nulla, il sole era ancora caldo ed era ancora estate.
Fu il mio primo tentativo di andarmene controvoglia.
L’odore delle case dei vecchi. La violenta
contrazione del tempo che spreme fuori i ricordi sempre meno spruzzi e sempre
più gocce isolate.
La penosa considerazione che ricordare non è un
riflesso condizionato.
Rievocare. Questo è il nostro atto a delinquere
che reiteriamo in affannosa voracità in gara sui nostri anni.