venerdì 11 dicembre 2015

Grisom (MARGARET #15)

Il pavimento è bianco, una striscia verde pallido corre sulla parete, c’è un corrimano dello stesso colore sui due lati del corridoio.
Margaret cammina al centro, i neon sopra la sua testa appiattiscono la sua ombra ogni tre passi. Nessuno le parla, c’è poca gente in giro. Conosce solo il numero della camera.
L’ultimo piano del Montrose Hospital è destinato ai pazienti cosiddetti residenziali.
La porta della numero ventotto è chiusa. Ha lo stesso colore pallido della striscia sulla parete. Scelgono colori che rilassano, tenui e accondiscendenti.
Apre la porta piano, lenta, cercando di fare il meno rumore possibile, ha smesso anche di respirare.
Un letto al centro della stanza contiene una figura immobile, sdraiata sulla schiena.
Dalla finestra entra la luce da cattedrale dei tramonti filtrati dei piani alti.
Il primo pensiero che le viene in mente è quello di essere dentro un quadro: martirio di qualche Santo, nell’attimo prima dell’ascensione. Si sente fuori luogo nel quadro, si sente tropo ingombrante, le sembra di essere enorme. Si sente sporca in mezzo a quella luce.
Richiude la porta e si avvicina al letto.
Non ci sono peli sul viso, nemmeno ciglia, niente capelli. La pelle è tirata sugli zigomi, sulle guance e sulla fronte sembra cuoio bagnato e seccato al sole, cicatrici in rilievo e profonde zone irregolari dove il colore è più acceso. Il naso è scomparso, solo due buchi neri in mezzo alla faccia.
Un bastone è appeso alla spalliera.
Gli occhi fissano Margaret. Quello destro si muove e la studia fin dove può arrivare. Il sinistro è vuoto, riempito da una protesi.
Il ronzio del motore elettrico fa alzare la parte mobile del letto. L’uomo ha le braccia lungo i fianchi, sotto la mano destra con la nocca rimasta del dito indice preme il telecomando e torna il silenzio.
«Spostati davanti al letto, non farmi girare la testa.»
Margaret ubbidisce.
«Sei venuta per lui?»
Non sa perché è venuta, per lui, certo. Per dire che Dreamer è scappato, ma che senso ha? Non è mai venuta a trovarlo dopo l’incendio. Non gli deve nulla. Ha lavorato all’autolavaggio solo per due mesi. Si è messa in testa che doveva venire qui a dire qualcosa. Bella cazzata Margaret. Cosa vuoi dire: mi dispiace, ma in fondo un po’ se l’è meritato? Poi lo dice.
« Credo che Hugine voglia ucciderla.»
L’uomo schiaccia il telecomando, è seduto davanti a Margaret adesso. Le spalle sono piccole, spalanca la bocca e ride, con le gengive scoperte, con la saliva che scivola sul mento perché non trova le labbra.
«Mi farebbe un favore il tuo bastardo. Margie cara.»
Quella bocca che anche così è la stessa dei complimenti spinti, dei sorrisini sul culo.
«Dovevano affogarlo da piccolo quello schifoso teppisssta.»
La esse è faticosa, adesso più di allora.
«Vuoi salvarlo Margie? Vuoi salvarlo ancora una volta?»
«Non voleva ucciderla, non allora.»
L’uomo alza la mano e tende le due dita rimaste. Le punta verso Margaret.
«Io l’aspetto. L’aspetto da quando mi sono risvegliato in questo stato. Sai perché non ho mai detto che quella notte sei stata tu a fare la telefonata per farmi tornare all’autolavaggio dopo la chiusura? Perché volevo che la colpa fosse tutta di Hugine. Volevo che tu rimanessi da sola, piccola puttanella sola con i suoi sensi di colpa.»
«Può chiamare la polizia se vuole, può farlo adesso.»
«Io non voglio la polizia, io voglio te Margaret. Sei tu il premio Margie cara. Adesso vattene, lascia il vecchio Grisom a ricordare i bei tempi andati… metti ancora le mutandine spaiate dal reggiseno Margie?»

La porta si apre, il carrello entra silenzioso.

«Non può rimanere durante la cena signorina.»



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