Il pavimento è bianco, una striscia verde
pallido corre sulla parete, c’è un corrimano dello stesso colore sui due lati
del corridoio.
Margaret cammina al centro, i neon sopra la sua
testa appiattiscono la sua ombra ogni tre passi. Nessuno le parla,
c’è poca gente in giro. Conosce solo il numero della camera.
L’ultimo piano del Montrose Hospital è
destinato ai pazienti cosiddetti residenziali.
La porta della numero ventotto è chiusa. Ha lo
stesso colore pallido della striscia sulla parete. Scelgono colori che
rilassano, tenui e accondiscendenti.
Apre la porta piano, lenta, cercando di fare il
meno rumore possibile, ha smesso anche di respirare.
Un letto al centro della stanza contiene una
figura immobile, sdraiata sulla schiena.
Dalla finestra entra la luce da cattedrale dei
tramonti filtrati dei piani alti.
Il primo pensiero che le viene in mente è
quello di essere dentro un quadro: martirio di qualche Santo, nell’attimo prima
dell’ascensione. Si sente fuori luogo nel quadro, si sente tropo ingombrante,
le sembra di essere enorme. Si sente sporca in mezzo a quella luce.
Richiude la porta e si avvicina al letto.
Non ci sono peli sul viso, nemmeno ciglia,
niente capelli. La pelle è tirata sugli zigomi, sulle guance e sulla fronte
sembra cuoio bagnato e seccato al sole, cicatrici in rilievo e profonde zone
irregolari dove il colore è più acceso. Il naso è scomparso, solo due buchi
neri in mezzo alla faccia.
Un bastone è appeso alla spalliera.
Gli occhi fissano Margaret. Quello destro si
muove e la studia fin dove può arrivare. Il sinistro è vuoto, riempito da una
protesi.
Il ronzio del motore elettrico fa alzare la
parte mobile del letto. L’uomo ha le braccia lungo i fianchi, sotto la mano
destra con la nocca rimasta del dito indice preme il telecomando e torna il
silenzio.
«Spostati davanti al letto, non farmi girare la
testa.»
Margaret ubbidisce.
«Sei venuta per lui?»
Non sa perché è venuta, per lui, certo. Per
dire che Dreamer è scappato, ma che senso ha? Non è mai venuta a trovarlo dopo
l’incendio. Non gli deve nulla. Ha lavorato all’autolavaggio
solo per due mesi. Si è messa in testa che doveva venire qui a dire qualcosa.
Bella cazzata Margaret. Cosa vuoi dire: mi dispiace, ma in fondo un po’ se l’è
meritato? Poi lo dice.
« Credo che Hugine voglia ucciderla.»
L’uomo schiaccia il telecomando, è seduto
davanti a Margaret adesso. Le spalle sono piccole, spalanca la bocca e ride,
con le gengive scoperte, con la saliva che scivola sul mento perché non trova
le labbra.
«Mi farebbe un favore il tuo bastardo. Margie
cara.»
Quella bocca che anche così è la stessa dei
complimenti spinti, dei sorrisini sul culo.
«Dovevano affogarlo da piccolo quello schifoso teppisssta.»
La esse è faticosa, adesso più di allora.
«Vuoi salvarlo Margie? Vuoi salvarlo ancora una
volta?»
«Non voleva ucciderla, non allora.»
L’uomo alza la mano e tende le due dita
rimaste. Le punta verso Margaret.
«Io l’aspetto. L’aspetto da quando mi sono
risvegliato in questo stato. Sai perché non ho mai detto che quella notte sei
stata tu a fare la telefonata per farmi tornare all’autolavaggio dopo la
chiusura? Perché volevo che la colpa fosse tutta di Hugine. Volevo che tu
rimanessi da sola, piccola puttanella sola con i suoi sensi di colpa.»
«Può chiamare la polizia se vuole, può farlo
adesso.»
«Io non voglio la polizia, io voglio te
Margaret. Sei tu il premio Margie cara. Adesso vattene, lascia il vecchio
Grisom a ricordare i bei tempi andati… metti ancora le mutandine spaiate dal
reggiseno Margie?»
La porta si apre, il carrello entra silenzioso.
«Non può rimanere durante la cena signorina.»
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