lunedì 12 ottobre 2015

PRIMA O POI, MAI

“Quando è successo che sul sole ci hanno avvolto una garza?” Questo era Pleyton. Era chiaro che con il passare delle stagioni passasse anche un po’ di sole, chi rimane fermo come un idiota? Nessuno. Nemmeno uno che fermo ci vuole stare, ti gira sempre sotto i piedi questa terra maledetta. Per sempre.
Il posto dove aspettava era sulla collina da dove si vedeva l’ultima curva: quella dolce in salita che sbuca all’improvviso.
Chi ci passa da quella curva si ritrova nudo come… come? Come un dito leccato dopo l’amore, ecco!
Non che quelli di giù facessero a gara per salire a casa sua. Una camminata in salita per andare da uno che ti chiedeva sempre la stessa cosa: “L’avete vista?”
«No, non l’abbiamo vista.» Questo era il becchino.
Si, perché Pleyton per campare costruisce bare. E va da sé che la persona costretta a salire con più frequenza a casa sua sia Abelander, il becchino appunto.
«Eppure arriverà, vedrete.»
Abelander ormai non l’ascoltava più. Ormai lo sapeva che andava a finire sempre con le stesse domande e le stesse risposte. Quando arrivava da Pleyton tirava dritto fino alla lavagna del laboratorio e scriveva le misure: altezza e larghezza delle spalle.
Sotto, in piccolo, delle brevi note del tipo: “lasciatoci in fretta”, “sorrideva anche prima”, “niente velluto”, “pensavo lo sapesse”, “ha amato di sinistro”, “era ora”, e cose così…
«Sicuri che non è passata dietro alla chiesa? Rasente il muro, verso il tramonto, con un cappuccio sulla testa?»
«Sicuri Pleyton. Sicuri come siamo sicuri che la prossima domanda sarà: come fate ad esserne sicuri?»
«Come fate ad esserne sicuri?»
«Ma sei scemo o cosa? No dico, sono tredici anni che ogni volta che finisco la salita mi fai sempre le stesse domande, tanto che più di una volta ho avuto la tentazione d’infilarmi io in una delle tue bare, solo per il piacere di non doverti più ascoltare!»
Era buffo, perché Abelander era un pedante “azzuffa virgole” , sapeva le domande e sapeva le risposte, ma ogni volta ci cascava e s’imperticava come fosse la prima delle discussioni. Che con tutto gli voleva bene e si conoscevano da una vita.
Che nessuno sapeva chi fosse che dovesse arrivare, né che faccia avesse, né che cavolo avesse a che fare con Pleyton che non lasciava mai la collina.
Per un po’ giù se l’erano riempita la testa di teorie: un amore del passato, una sorella mai conosciuta, una donna che ha paura degli sguardi, una moglie abbandonata, una… una che aveva ordinato una bara e per sbaglio non era ancora morta.
Avevano chiesto ad Abelander se avesse visto qualche indizio in casa di Pleyton o nel laboratorio: una foto, una scritta sul muro, una veletta da vedova appesa sopra il letto, un nome su un libro.
Niente.
«Quello non aspetta nessuno, ve lo dico io. Ci prende in giro. Quello se ne sta da solo da troppo tempo e si è inventato che prima o poi qualcuno arriverà. Perché secondo voi io non gliel'ho mai chiesto: ma chi aspetti, chi è che dovrebbe arrivare? Sapete che mi risponde? “La prima, l’ultima e la prossima.”»
“Quello”, faceva due cose: bare e guardare la curva. Anzi tre: bare, guardare e domandare.
E fermo sulla collina a starci ore intere. Tutte se le faceva le stagioni, non c’era caldo, vento, pioggia o neve che riuscissero a sfiancarlo.  
E la curva dolce per sempre lì.
Il tempo passava e la gente moriva.
Abelander resisteva e sotterrava, era rimasto solo lui a salire da Pleyton. Ormai giù non c’era quasi più nessuno che ricordava la storia delle domande e delle risposte sempre uguali.
Forse Abelander sentiva vicina la sua di morte, o forse quella di tutti e due, sta di fatto che adesso appena finiva la salita era lui a domandare per primo.
 «Dimmi chi aspetti?»
« La prima, l’ultima e la prossima.»
Perché la curiosità è una brutta amante, Abelander era cotto di quella domanda. Ci aveva passato una vita e adesso voleva sapere.
«Pleyton matto bastardo! Dimmi chi aspetti o le prossime misure su quella lavagna saranno le tue, te lo giuro che per la prima volta non aspetterò che la vita faccia da sola. E ti dico un’altra cosa: se non mi dici chi aspetti, sai cosa scriverò vicino alle tue misure? “Che l’eternità se lo porti senza pace e senza speranze.”»
Pleyton lasciò cadere chiodi e martello. Lasciò cadere anche lui su una sedia. Tolse di torno tutto il fiato che aveva in corpo con un bel sospiro.
«Amico mio, è lei che aspetto. Lei che hai appena nominato, che tu credi una sciagura. Io che da questa collina ho visto passare un sacco di gente da fuori a dentro, a un certo punto ho pensato che prima o poi sarebbe arrivata, almeno a farsi un giro. Me la sono anche immaginata che sale e sbuca dalla curva col passo vuoto e le mani bianche, che mi guarda e mi esplode nel petto dicendomi: “per sempre”.»
Abelander pianse, e pianse tutto il tempo della discesa, e non salì più, mai più.
Il pazzo aspettava l’eternità: “la prima, l’ultima e la prossima”. E l’aspettava pure donna, quel cretino. Il passato, il presente e il futuro, tutto insieme per sempre. Folle!
Pleyton ci rimase per sempre sulla collina.
Solo un’asse di legno con scritto: “Mi basterebbe sapere che mi hai cercato”.   


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