Con il
suo vestito nero che le copre i piedi, così lungo che è inchiostro sul
pavimento in una pozza che non ha confini tra lei e il pianoforte che suona
davanti a tutti loro. Immersa nel liquido della sua musica che rovescia nei
loro bicchieri, in mezzo ai loro silenzi, alle loro spalle, sulle battute e
sulle facce da recita di cena a due.
In
questo posto che non ha indirizzo, non accetta prenotazioni, accoglie chi trova
la porta stretta in mezzo al vicolo alle spalle di vita veloce e urlante di
fine settimana da uscite di sicurezza.
Dove
tutto è senza colore che riflette, solo opachi e scuri, e candele. Lei suona
per non perdere il senso del tempo, per le sue dita d’avorio e per stare lì.
Vorrebbe
essere amata su questo sgabello, dove si farebbe fatica a stare in equilibrio
in due se non stretti e incastrati, non è possibile, non aspetta più che entri
e che arrivi ad appoggiare i gomiti sul legno lucido, con la sua faccia riflessa
nella coda laccata. Quando arriva questo momento suona più veloce, più forte,
le unghie grattano il bordo del legno dove cominciano i tasti. Ci sono mezze
lune di vernice saltata come nelle pareti delle galere dove ti spingono con una
mano in mezzo alle scapole. Magari spingessero così forte da spaccarti il naso
contro il muro e farti pensare per un po’ solo al sangue che ti cola e ti
finisce in gola. Sputerebbe e non sarebbe più solo nero.
Le
rimane il piacere masochistico di presentarsi tutte le sere elegante e perfetta
davanti al dolore, di potersi scegliere la musica che preferisce per aspettare
che la notte finisca senza succedere.
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