lunedì 26 ottobre 2015

NERO

Con il suo vestito nero che le copre i piedi, così lungo che è inchiostro sul pavimento in una pozza che non ha confini tra lei e il pianoforte che suona davanti a tutti loro. Immersa nel liquido della sua musica che rovescia nei loro bicchieri, in mezzo ai loro silenzi, alle loro spalle, sulle battute e sulle facce da recita di cena a due.
In questo posto che non ha indirizzo, non accetta prenotazioni, accoglie chi trova la porta stretta in mezzo al vicolo alle spalle di vita veloce e urlante di fine settimana da uscite di sicurezza.
Dove tutto è senza colore che riflette, solo opachi e scuri, e candele. Lei suona per non perdere il senso del tempo, per le sue dita d’avorio e per stare lì.
Vorrebbe essere amata su questo sgabello, dove si farebbe fatica a stare in equilibrio in due se non stretti e incastrati, non è possibile, non aspetta più che entri e che arrivi ad appoggiare i gomiti sul legno lucido, con la sua faccia riflessa nella coda laccata. Quando arriva questo momento suona più veloce, più forte, le unghie grattano il bordo del legno dove cominciano i tasti. Ci sono mezze lune di vernice saltata come nelle pareti delle galere dove ti spingono con una mano in mezzo alle scapole. Magari spingessero così forte da spaccarti il naso contro il muro e farti pensare per un po’ solo al sangue che ti cola e ti finisce in gola. Sputerebbe e non sarebbe più solo nero.
Le rimane il piacere masochistico di presentarsi tutte le sere elegante e perfetta davanti al dolore, di potersi scegliere la musica che preferisce per aspettare che la notte finisca senza succedere. 

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