lunedì 1 febbraio 2016

Carol e Chon

Poteva capitare che Chon e Carol si trovassero la sera alla stessa ora nel salone. Non c’era nessun appuntamento, la loro, così come era stato messo nero su bianco, era una semplice convivenza regolata da un contratto di locazione. Entrambi avevano diritto ad accedere a tutti gli spazi della casa e del giardino, compreso il diritto di usufruire della spiaggia privata. Le uniche restrizioni erano rivolte alle camere da letto e ai bagni personali, nessuno dei due poteva entrare negli ambienti dell’altro.
Carol occupava sempre la stessa poltrona, Chon non aveva mai provato ad accomodarsi su quella poltrona rossa, nemmeno quando si trovava da solo nel salone.
Passavano sere in completo silenzio, ignorandosi a pochi metri di distanza.
Carol spesso si addormentava sulla poltrona con un libro aperto sulle gambe. Chon prima di andarsene dal salone chiudeva il libro e infilava tra le pagine qualcosa che potesse fare da segnalibro, l’ultima volta aveva usato un cucchiaino del caffè. Nessuno dei due parlava mai di questo gesto.

Questa sera erano di nuovo entrambi nel salone. Avevano già cenato, ognuno per conto suo: Carol in cucina, Chon in biblioteca.
Carol non stava leggendo, guardava fuori attraverso la vetrata. Il grande ulivo resisteva con apparente leggerezza al vento forte che portava grosse nuvole verso la costa.
Chon era seduto al lungo tavolo di noce, davanti a sé aveva steso delle vecchie carte nautiche e prendeva appunti su ipotetiche rotte da seguire per nuovi e irrealizzabili viaggi in barca. A intervalli regolari alzava il viso e lanciava uno sguardo verso la sua padrona di casa, da qualche giorno aveva la sensazione che Carol avesse perso peso, che fosse diventata più silenziosa del solito, per un istinto che non credeva di possedere, Chon aveva smesso di provocarla, come amava fare, con battute sulla casa e sulla loro convivenza.
«È soddisfatto della sua permanenza in questa casa?», la domanda arrivò all’improvviso sulle carte nautiche e su Chon.
Carol si era seduta di traverso sulla poltrona: le gambe erano a penzoloni appoggiate sul bracciolo, teneva le mani strette tra le ginocchia, il busto sbilanciato in avanti e il viso inclinato.
«Molto soddisfatto, lo considero un buon investimento.», Chon aveva risposto spingendo da un lato le carte nautiche e chiudendo il quaderno su cui stava prendendo appunti. Aveva girato la sedia appoggiandosi comodamente allo schienale.
«Vive in casa mia da un mese e di lei non so praticamente nulla, se escludo la sua dedizione all’egocentrismo a cui si dedica con ostinata abnegazione.»
«È un modo gentile e forbito per dire che sono un egoista?»
«All’apparenza. Ma può sempre smentirmi, qual è la sua storia?»
Chon si raddrizzò sulla sedia e appoggiò le mani sulle ginocchia, «Lei vuole avere sempre l’ultima parola, vero?»
«Detto da lei lo considero un complimento. Ha qualcosa da dirmi o vuole continuare a nascondersi dietro a frasi fatte?»
«Cosa vorrebbe sentire? Un racconto strappalacrime sulla mia infanzia?»
Carol si rigirò a guardare fuori dalla finestra, «Come vuole, parlare con lei è noioso se si superano le due battute a testa. Tra i due è lei che vuole l’ultima parola, a me non interessa, l’ultima parola è una vittoria inutile, perché il nemico di cui cerchiamo il corpo è scomparso.»
«Mi piacevano i fumetti. Da piccolo leggevo un sacco di fumetti, poi ho smesso. Non l’ho deciso, non mi ricordo nemmeno il momento in cui ho letto l’ultimo fumetto. La stessa cosa è successa con le poesie, ho smesso di leggerle. Le scrivevo anche, una volta, poi più nulla. Black out. Ho smesso di scriverle, è successo come con i fumetti,  non c’è stato un distacco doloroso, sono scomparse. Non le cerco più, e loro non vengono a cercare me. Buffo come smettiamo di fare cose che ci piacciono senza che nessuno ce lo imponga. Credo che secondo il suo ragionamento la poesia abbia avuto l’ultima parola. Sono scomparso.»

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