lunedì 22 febbraio 2016

La stanza di Carol

Le persiane della finestra della camera di Carol sono state chiuse per tutta la mattina.
Chon ha fatto colazione in giardino, la solita colazione: tè, marmellata di fragole su una fetta di pane tostato, senza burro, e una spremuta.
Dal tavolo della colazione, a intervalli regolari, alzava lo sguardo a controllare la finestra.
Stare da solo in casa non gli piaceva, voleva stare da solo con Carol in giro, gli mancava quel valzer di spostamenti tra una stanza e l’altra, quell’incrociarsi nei corridoi e accarezzarsi con un “buongiorno” educato e formale che era il loro codice per dire: sono qui anche oggi.
All’ora di pranzo è arrivato un uomo che non aveva mai visto prima. L’uomo era senza dubbio un medico, aveva la valigetta da medico, e la governante oltre a chiamarlo dottore l’ha scortato per le scale fino alla stanza di Carol. Il medico si è fermato per quasi un’ora.
Carol non è scesa nemmeno per la cena.
Chon è passato davanti alla porta della sua camera circa una decina di volte, e almeno in sette occasioni ha dovuto trattenersi dal bussare.
Ha passato il resto della serata seduto sulla poltrona rossa di Carol senza fare nulla a parte fumare sigarette.
In questo stato di catatonia indotto la sua mente ha vagato sul significato fisico della parola assenza, senza approdare a nessuna teoria abbastanza illuminata e rivoluzionaria capace di far lievitare il suo umore.

La lista delle cose non dette a Carol era diventata una lunga preghiera di sensi di colpa con il ticchettio del tempo che scorre a fare da controcanto.

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