a R.
Quando da bambini ci si arrampica sugli alberi
non si pensa a chissà come sarà cadere… si sale
e basta.
Noi usavamo dei lunghi cavi di gomma, erano
cavi elettrici, metri e metri di cavi elettrici neri e spessi come liquirizie
giganti che io rubavo dal magazzino di mio padre.
Io e Robi ci passavamo i pomeriggi sotto e
sopra il grande Tiglio che cresceva proprio al centro del giardino, il tronco
era nero e sporcava le braccia se cercavi di abbracciarlo, dritto per cinque o
sei metri non aveva rami o appigli per attaccare la salita a mani nude.
Lanciavamo il cavo a cavallo del ramo più basso
e solido a portata di lancio da ragazzini e poi ci legavamo in una imbragatura
sbilenca e insicura attorno ai fianchi e sotto le cosce, cercando di non
schiacciarci le palle.
Forza di braccia e spinta di gambe sul tronco,
si saliva così fino ai rami appiccicosi, e poi basta, si scendeva. Il divertimento stava
tutto nel salire e scendere.
Adesso non passo sotto il tiglio da anni, non
faccio mai il giro della casa quando torno. Non sto più sotto a cercare di
capire quale ramo è il più adatto e quale invece ci sbatterebbe con il culo per
terra dopo un paio di metri di salita.
Abbiamo preso tante culate durante l’estate roba
da spaccarsi l’osso sacro, ma per una legge non scritta pare che arrampicarsi
sugli alberi porti una certa immunità fisica fino ai tredici anni, poi basta,
poi se cadi ti fai male.
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